Quando, nel 1954, Italo Calvino scrisse a Giuseppe Cocchiara per illustrargli l’intenzione dell’editore Einaudi di «porre mano a un piano organico di tutta la favolistica mondiale», non mancò di sottolineare che l’Italia non aveva mai avuto i suoi Grimm o il suo Afanasjev.

Non esisteva, insomma, una raccolta nazionale di fiabe popolari sufficientemente rappresentative, nonché tradotte dai vari dialetti per risultare leggibili da tutti, anche se nel 1875 il filologo Domenico Comparetti aveva pubblicato Novelline popolari italiane, primo e unico volume di una mancata trilogia che avrebbe dovuto contenere fiabe di tutta Italia «tradotte in lingua comune» e che doveva distinguersi «dalle raccolte parziali di novelline lombarde, venete, sicule».

Il compito di costruire un’opera del genere, con secolare ritardo rispetto ad altri paesi europei, sarebbe toccato proprio a Calvino che, in un’epoca in cui delle tradizioni popolari restavano solo ruderi sul punto di essere spazzati via dal boom economico e dalla potentissima ruspa televisiva, dovette fare ricorso proprio alle «raccolte parziali» di cui parlava Comparetti .

«Disarmato d’ogni fiocina specialistica» – come ammette lui stesso nella prefazione alle Fiabe italiane – lo scrittore si immerse in un mare vastissimo, scoprendo che i testi a disposizione erano di un’abbondanza prodigiosa, dovuta a una schiera di studiosi attivi sin dai primi anni dell’ottocento e bene inseriti nel continuo e vivace dibattito internazionale su origini, natura e significato di quelle tradizioni popolari che i romantici tedeschi avevano eletto a «tesoro dell’umanità» e a espressione autentica dell’anima di un popolo. Da Costantino Nigra a Ermolao Rubieri, da Alessandro D’Ancona a Domenico Comparetti, da Gherardo Nerucci a Vittorio Imbriani, per citare solo i più noti, in molti avevano provveduto a raccogliere canti, ballate, narrazioni di vario genere, seguendo criteri diversi e indagando i testi reperiti in un’ottica che rimandava di volta in volta alla filologia, alla letteratura comparata, alla mitologia.

Tra tutti, però, l’unico a potersi definire un folklorista nel senso più completo e moderno del termine è stato Giuseppe Pitrè, medico palermitano morto nel 1916, che dedicò un’intera vita a raccogliere e studiare «leggende, fole, canti, proverbi, usi, credenze, superstizioni», e poi ancora feste e spettacoli sacri e profani, rimedi e farmacopee, giochi, indovinelli, scioglilingua del popolo siciliano, il tutto riunito in una monumentale «Biblioteca delle tradizioni popolari»: venticinque volumi pubblicati tra il 1871 e 1913, cui vanno aggiunti i sedici delle Curiosità popolari tradizionali e un congruo numero di opere che spaziano oltre i confini della Sicilia, dalle Novelle popolari toscane alla Bibliografia delle tradizioni popolari italiane.

Ben quattro volumi della «Biblioteca» sono dedicati alle fiabe, prima stenografate, poi trascritte con rispettosa esattezza e infine corredate di note, postille e varianti dal dottor Pitrè nel piccolo studio viaggiante allestito all’interno del calesse che usava per andare dai suoi pazienti: una miniera cui già aveva attinto Luigi Capuana per il suo «Raccontafiabe», dove si parla di un mago Tre-Pi (ovverò Pitrè) che «di fiabe n’ha pieni i magazzini». Fra le trecento storie contenute nella raccolta, Calvino ne scelse quaranta da tradurre/riscrivere, e altre sporadiche traduzioni di mani diverse (per esempio quelle di Leonardo Sciascia) hanno via via contribuito ad accrescere il numero delle narrazioni disponibili in italiano: assai poche, in realtà, se si considera il loro immenso valore scientifico e letterario. E soltanto adesso, a distanza di quasi un secolo e mezzo dalla edizione in dialetto pubblicata dall’editore palermitamo Luigi Pedone Lauriel, arriva in libreria la prima traduzione integrale in italiano dei quattro volumi in cui Pitrè raccolse le storie narrate da uomini e donne (più della metà dei suoi informatori erano «contatrici») spesso analfabeti ma dotati di un grande talento fabulatorio.

L’editore Donzelli, con il patrocinio e il sostegno della Fondazione Sicilia, ha infatti realizzato una doppia e preziosissima edizione di quella che appare ancora oggi come la più imponente, ricca e minuziosa tra le raccolte europee di fiabe folkloriche: in un volume, Il pozzo delle meraviglie (pp. 806, euro 30,00), sono riunite le versioni italiane delle trecento fiabe, illustrate da Fabian Negrin con tavole a colori di eccezionale e inquietante bellezza, mentre in altri quattro Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani è riportata la versione originale del lavoro di Pitrè, con testo italiano a fronte (traduzione di Bianca Lazzaro, introduzione e cura di Jack Zipes – studioso della fiaba di indiscusso valore e prestigio, che ha a sua volta tradotto in inglese le fiabe siciliane, apparse in edizione integrale prima negli Stati Uniti che da noi: The collected sicilian Folk and Fairy Tales of Giuseppe Pitrè, Routledge 2008; la prefazione è di Giovanni Puglisi, pp. 2875, euro 165,00). Entrambe le edizioni sono corredate da differenti prefazioni – come differente è la destinazione: il volume unico si rivolge a un pubblico più vasto.

Vengono così consegnate ai lettori italiani storie mediterranee meno celebri e celebrate di quelle raccolte agli inizi dell’ottocento dai fratelli Grimm, ma capaci di reggere magnificamente il confronto, come sottolinea Zipes, che giudica i quattro volumi di Fiabe, novelle e racconti popolari del Pitrè «più importanti delle fiabe dei Grimm… possiedono uno squisito carattere di genuinità, e riflettono gli usi, le credenze e le superstizioni della gente comune di Sicilia molto più di quanto la gran parte delle raccolte ottocentesche europee non riescano a ritrarre le esperienze della gente comune dei rispettivi paesi». E non poteva essere che così, perché, pur non essendo estraneo a una adorazione di stampo romantico per il popolo, il folklorista siciliano era innanzitutto deciso a cercare la voce dell’ isola là dove nessuno l’aveva mai cercata, convinto che «La storia del popolo si è confusa con quella dei dominatori … della sua storia è voluta farsene una cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza tener presente che egli ha memorie ben diverse da quelle che così spesso gli si attribuiscono sì dal lato delle sue istituzioni e sì da quello degli sforzi prepotenti da lui durati a sostegno dei suoi diritti. Il tempo di ricercare quelle memorie, di studiarle con pazienza, di fecondarle con amore è venuto anche da noi».

È per questo che Pitrè trascrive con fedelta il dettato popolare, senza rielaborarlo e senza tentare di individuare la versione «migliore», ma considerando il folklore nella sua interezza, come rappresentazione e memoria della «storia parlata e non mai scritta» della Sicilia, un albero le cui foglie sono le produzioni popolari che fino ad allora ci si era limitati a studiare come oggetti filologici, simili a insetti trafitti da uno spillo e messi sottovetro.

[V_INIZIO]Di questa vita, storia e memoria, di questo passato che si reincarna ogni giorno nella vita quotidiana e che affonda le radici in tempi infinitamente lontani, le fiabe sono un’espressione fondamentale, che non va però ricondotta a una «purezza» originaria, astratta e anonima, ma che tiene conto della individualità, della capacità creativa e della verve di chi le racconta. Se Pitrè annota sempre il nome dei suoi informatori, se descrive la loro mimica, i toni di voce, le interiezioni, se traccia brevi ed entusiasmanti ritratti delle sue contatrici, è perché riconosce una qualità estetica e in qualche modo letteraria al loro narrare e alla coloritura linguistica ed emotiva che ciascuno sa e vuole dare alla fiaba, materia robusta e malleabile. Pur dedicando le sue ricerche soprattutto alla Sicilia ed entusiasmandosi di fronte alle «squisitezze» dialettali di donne umilissime, come Agatuzza Messia o Rosa Brusca, Pitrè possiede tuttavia una cultura immensa che insieme all’elaborazione di un metodo innovativo e a una visione senza preconcetti, ne fanno uno studioso di livello internazionale, noto, all’epoca, in Europa come negli Stati Uniti, e in grado di intrattenere con colleghi illustri un’ampia corrispondenza in varie lingue.

La prima traduzione italiana di tutte le sue fiabe serve anche a questo, a riconsegnarci la figura di uno scienziato e di un uomo fuori del comune, tutt’altro che isolazionista ed escludente come è a volte – dice Giuseppe Puglisi in apertura dei quattro volumi del cofanetto – la cultura siciliana. Ma a sorprendere, al di là della singolarità di un autodidatta geniale e instancabile o della dimensione e della qualità della sua opera, è oggi soprattutto la lettura delle fiabe, infinitamente seducenti grazie alla loro incantata asciuttezza, all’esercizio di un umorismo non rassegnato e pronto a sconfinare nella satira, al visibile incrocio di culture che si sono sovrapposte nel corso dei secoli, alla rappresentazione di un mondo contadino di realistica durezza, alla stilizzata e non troppo cruenta amoralità imposta dalla forza del desiderio, e infine alla presenza di eroine intraprendenti e pronte a forgiare il proprio destino come a farsi beffe degli uomini dai quali prima o poi si faranno sposare. Una lettura travolgente, che la traduzione di Bianca Lazzaro ha reso possibile grazie a un lavoro difficile quanto fruttuoso: non era semplice, infatti, trovare il giusto equilibrio tra il «parlato» arcaico del testo siciliano e un italiano che non fosse troppo piattamente leggibile e mantenesse quasi per intero il sapore, il colore, l’odore dell’originale. Una scommessa audace che la traduttrice è riuscita a vincere, evocando storia per storia il raggiungimento di una felicità che, ci ricorda Zipes, è pura finzione, «un’aspirazione destinata a rimanere irrealizzata nella vita della maggior parte dei narratori e di chi li ascoltava. Ma le storie erano di per sé una forma di realizzazione. L’arte di narrare e l’ascoltare consentivano tanto a chi narrava che a chi ascoltava di ricavare dalle storie un senso, una “rivalsa”, un piacere e un sapere importante, proprio come ancora oggi ci aiutano a misurarci con le vicissitudini di tutti i giorni».