L’Enfatismo arrivò nell’estate del 1983, sulle pagine della rivista Flash Art, con un testo teorico (il suo manifesto) di Francesca Alinovi, l’intervista ad alcuni artisti del gruppo ed numero limitato di immagini. L’articolo venne pubblicato con una affettuosa e purtroppo macabra nota editoriale di introduzione In luogo di un formale necrologio preferiamo pubblicare…). Questo, tra gli ultimi ismi del XX secolo, si affacciò da morto sulla scena del contemporaneo. Come tutti i morti viventi – dai vampiri fino agli zombies dei film di Romero – apparve come una disordinata sfida all’ordine costituito. Divenne un bizzarro oggetto teorico in grado di chiudere un secolo che di manifesti era ingombro, dal Futurismo fino al Situazionismo. Nacque e morì con la sua autrice. Una meteora per descriverne la traiettoria, l’inevitabile caduta e l’istantaneo dissolvimento. Qualcosa di mai visto o la deludente prova di un piccolo orgasmatico collettivo di artisti di provincia? Un precocissimo trailer che illustrò, involontariamente, nei giorni della melma che seguirono l’omicidio di Francesca Alinovi, i tic del nuovo circo artistico-planetario, sviluppatosi sulle rovine del postmoderno.
La militanza creativa
Ci sono però certezze, fragili elementi reali e peculiari di un piccolo gioiello di sottocultura, che sopravvivono alle errate decodifiche dell’aggettivo. Esiste la vera narrativa dell’Enfatismo e, soprattutto, la sua tensione verso un futuro. Francesca Alinovi aveva a cuore questo progetto e occorre immaginarlo nella sue realizzazioni e non solo come sua ultima, febbrile attività critica. Purtroppo, venne relegato dalla cronaca nera in un angolo recondito della storia dell’arte italiana che rischiò di offuscare la figura di Francesca Alinovi come critica militante. Cosa c’era di così inaccettabile, per il sistema italiano, in quel disegno che cercava di conciliare il dilemma di ogni bohème e illuminava quella zona di imperfezionie tra arte e vita? Va ancora stabilito quanto l’Enfatismo operasse come laboratorio di cultura per Alinovi «io sono come i miei artisti…»), perché non fu un semplice divertissement. Da soli, a raccontare quella eredità, basterebbero gli sviluppi successivi della Galleria Neon come luogo centrale per la giovane arte italiana. Un esperimento di coltura in vitro che Francesca fece nascere, investendo personalmente, nella produzione dei primi eventi. Quel futuro che apparve nel testo teorico dell’Enfatismo come ipertrofico, egotista e gonfiato dell’Enfarte, è oggi sotto gli occhi di tutti, ma Alinovi arrivò a nominarlo, a individuare, frontiere e contorni, prima di molti altri. Come quel Torno Subito che Maurizio Cattelan appese dieci anni dopo il big-bang, nella sua prima vera personale (proprio a Neon).
Il Manifesto Enfatista è preceduto da un testo operativo persino più estremo e più politico: il catalogo della mostra Ora! Se lo si compara con quello della galleria Neon nel 1983, con disegni autografi di Francesca Alinovi, tipografate da me e calligrafate per il testo di Claudio Bacillieri da Gino Giannuizzi, tutto sembra essere successo: «Dimenticare e non vedere, per volere scomparire. Per non essere visti ed essere dimenticati. Per esserci solo in quell’istante in cui l’opera viene fatta e poi cancellarsi».
Per decriptare il testo, occorre riferirsi al cinema sperimentale, al design, alla poesia , alla moda e al teatro: insomma, alla tanto studiata e amata performance. «Non sono io che ho raccolto queste opere, comunque, sono loro che sono venute a precipitare addosso a me». Fu proprio una mostra collettiva, a definire il registro di quello scritto. Gli enfatisti e l’enfatismo non esistono ancora, ma un gruppo di giovanissimi (anagraficamente attorno ai 20 anni) artisti, performer, fotografi e musicisti si raccoglie e organizza attorno a Francesca Alinovi. «Essere liberi da tutte le collocazioni spaziali possibili: parete, spazio, iperspazio. Quadro, installazione, performance. Sperimentazione e massificazione. Aperto e chiuso. Dentro e fuori. Qui e Ora, solo Ora. Ho appeso le opere di questi artisti nella mia stanza e sono uscita a passeggiare nella città».
Dentro la stanza
La mostra si intitolava Ora! Sulla copertina, una foto scattata da Barbara Fenati in cui tre figure maschili mimano un tableau vivant, una posa tratta da NightHawks di Edward Hopper L’ambiente è scarno (le prima sede di Neon) quasi uno studio in cui si ricrea l’atmosfera urbana. Sullo specchio, nella foto, la scritta Ora! in tre lingue. Oltre a quella italiana appaiono quella francese (Maintenant), il tedesco (Nur), che significa adesso o solo ed è forse un ibrido tra nun e Ur ora, l’inglese (Now). Le lingue del dadaismo storico e del suo viatico: Parigi, Berlino, New York. Fin qui, tutto nel solco della grande corrente sottoculturale della New e No-Wave. In cui Alinovi inserisce la sua Now!-wave: «Ora! E una mostra che deve esserci ora o mai più!», scrive nell’introduzione al catalogo e Maintenant fu più esattamente il titolo della rivista autoprodotta da Arthur Cravan all’inizio del XX secolo. Ecco dunque proto-enfatismo e proto-dadaimo. Arthur Cravan, molto caro a Picabia e Duchamp, morto misteriosamente in Messico, precursore riconosciuto di ogni strategia dello scandalo e precocissimo nell’arte di creare opere smaterializzate e irreperibili. La locandina del suo incontro di boxe con il professionista Jack Johnson figura sulla copertina del libro Dada-Antiarte e Post Arte, libro storico a cui Francesca aveva dedicato le sue ultime ricerche e che ucì nel 1980. Ecco l’intenso e meditato gioco di rimandi e simulazioni tra un percorso accademico e il tracciato del suo personale e originale approccio al contemporaneo. Mondi che venivano a completarsi, cultura alta, artisti cult, movimenti d’avanguardia si intrecciavano, in un orizzonte per l’arte che Francesca Alinovi delineava come in uno spartito aperto fatto di incontri e felici coincidenze. Tante le procedure messe in atto da Alinovi, ma conviene restare ancora un momento su una poesia e un testo che lo chiudevano quel catalogo di David Rattray (graffiti kids…). Rattray, oltre a essere un poeta conosciuto, è uno dei migliori traduttori americani di Antonin Artaud. L’Artaud che scriveva nel ’47 un testo importante su Van Gogh e la sua follia, quello per interderci sull’«artista suicidato della società». Dunque con Artaud, l’automatismo, lo sfiorare l’idea di malattia (L’enfatia è come una malattia) si riempie un’altra delle caselle nel gioco selettivo di Francesca, fatto di scelte personali e rimandi. Si tesse la trama di una couture ultima, molto preziosa per mettere a punto un linguaggio fatto di referenze nel solco Dada e Surrealista, che percorre tutto quel testo febbrile e convalescente che è il manifesto enfatista. È su questa storia elettiva che bisogna approcciare il testo crudo, che esordisce così: «L’Enfatia è come una malattia, è l’estasi del mettersi in mostra». La scelta di un disegno ubuesco larvale, di suo pugno, chiosa i contorni del manifesto ed evolve in una spirale che ricorda automatismo e psichedelia surrealisti. Dunque Jarry, Cravan, Artaud, Schwitters. Il manifesto è scritto di getto ed è venato del disagio esistenziale, generazionale ma soprattutto personale che Francesca stava vivendo, anche nella sua relazione con un artista del nostro gruppo, Francesco Ciancabilla, riconosciuto poi dalla giustizia italiana responsabile del suo omicidio.
Street life
La Settimana della performance fu senza dubbio il primo terreno di sperimentazione di ciò che diventerà l’Enfatismo. La quasi totalità dei suoi artisti si formarono, all’interno di questa manifestazione internazionalmente nota (a partire dal 1977 portò con sé il meglio della scena artistica mondiale da Marina Abramovic a Laurie Anderson, da Peter Gordon a Luigi Ontani). Gli artisti dell’Enfatismo, che delle primissime edizioni erano stati semplici spettatori, a partire dal 1980, grazie a Francesca Alinovi, si ritrovarono in cartellone. La scena si era ribaltata come in una favola. Ma per capire per quale ragione un gruppo di studenti che partecipava ai seminari teorici di Alinovi sul Dada e l’arte moderna si ritrova al centro di un suo disegno artistico e personale, occorre riferirsi all’energia di una città. Pensare alla scena musicale di Bologna, alla sua incredibile street life che l’accomunavano a un’altra capitale del contemporaneo, New York. Occorre il coraggio teorico di chiudere il cerchio e operare per vie tangenziali con gli altri eventi internazionali da lei organizzati. New York e la sua mostra Italian wave da Holly Solomon, l’amicizia e i testi scritti per Luigi Ontani spesso in performance a The Kitchen e non ultimi, tutti i viaggi e la sua attività di ricerca nei quartieri sensibili di NY così come nelle università americane. In quesi testi seminali Francesca parla della burocratizzazione dei no-profit space e la sua attenzione si rivolge sempre di più verso la pubblicizzazione della nascente scena dell’East Village. Era un ibrido di culture (tra cui quella black) di cui si stava impregnando. C´è bisogno di luoghi dove sviluppare questa sensibilità, una volta tornati a casa e Neon di Gino Giannuizzi, e Valeria Medica (a cui assocerei Maurizio Vetrugno) con il loro spazio e lavoro fornirono quel supporto che fece somigliare i locali di via Solferino a un club di New York. Ecco allora riapparire più definita se non la frontiera, il suo confine liquido. Il quartomondo enfatista era allo stato gassoso e si espandeva e consolidava di qua e di là dall’oceano.