È il 2016 quando, a Perugia, un gruppo di artisti «amanti della bella carta» rileva le spoglie di un giornalaio storico e ne fa il «chiosco ribelle» Edicola 518. Da allora, quei quattro metri quadri farciti di riviste indipendenti, libri d’arte, carte anarchiche e autoproduzioni, invadono il giardinetto di fronte, trasformandolo in agorà e giardino epicureo.

NASCONO COSÌ le Lezioni di Anarchia (su lavoro, educazione, autogestione, democrazia) che proseguono per due anni, fino a precipitare in un testo che ne conserva la colloquialità, la spontaneità e l’apertura all’imprevisto, persino nella bellissima veste grafica (Lezioni di Anarchia, volume 1. Cronache di incontri realmente avvenuti in Edicola 518 Perugia, a cura di Antonio Brizioli, elèuthera-Emergenze, pp. 176, euro 25). Ma se l’anarchia è un discorso vivo, accessibile a chiunque, è anche da sempre un sapere senza autorità. Allora come s’insegna? Chi la insegna? I saperi diffusi dai «modesti professori» (come si auto-definiscono) intervenuti al chiosco rifiutano l’autorità che deriva dalla posizione, ma possiedono l’autorevolezza della competenza; d’altra parte – diceva Malatesta – per riparare un paio di scarpe serve un ciabattino, di cui riconosco il saper fare. Ecco un primo affondo sul presente: in una società che spinge nell’anonimato molti giovani intellettuali, rivendicare l’autorità liberamente riconosciuta al sapere contro l’autorità del titolo è un gesto significativo, che fa giustizia.

EPPURE, autori e curatori sanno di aver scelto un titolo-paradosso: l’anarchia non si può insegnare, non solo perché il pensiero anarchico è stato sempre plurale e polifonico, anti-dottrinario, dai tanti padri (e madri) a differenza del marxismo, ma anche perché, per definizione, nessuno può rivendicarne il monopolio né qualcuno può credere di «formare un anarchico» all’infuori di sé. Tuttavia esiste una «pedagogia libertaria», che dall’Ottocento ha rifiutato l’istruzione ufficiale (autoritaria e classista) e rivendicato il concetto di educazione «integrale» (teorica e pratica), da Tolstoj a Kropotkin, da Proudhon a Louise Michel a Francisco Ferrer. Ma è l’anarchico inglese Colin Ward, ideatore del concetto di «educazione incidentale», a regalare la più bella immagine della relazione educativa libertaria: il discente non è un vaso vuoto, né un blocco di creta da plasmare, bensì un fiore. Posso aiutarlo a germogliare, liberarlo dalle erbacce, concimarlo, ma non potrò mai fare di un tulipano una margherita. Certo, da questo germoglio ci si può attendere di tutto, anche un fiore anti-libertario, un «servo volontario».
Eppure, solo con la «pratica discorsiva anarchica», o «permettendo di scoprire» anziché insegnare (Paul Goodman), è possibile lo sviluppo pieno dell’homo reciprocans che tanti celano in potenza e il fiorire di una «volontà di contrasto», capace di abbattere le «barriere mentali» contro cui Emma Goldman metteva in guardia.
È questo anarchismo «pratico», quotidiano, immanente, che gli autori prediligono e divulgano. Si può essere anarchici prima, al di qua e al di là di un orizzonte rivoluzionario. I «semi sotto la neve» (figura tratta da Ward a Silone) sono grani di anarchia gettati dentro la democrazia reale e imperfetta; è la scelta di vivere rifiutando di «obbedire e comandare». Più in concreto, in tanti applicano forme di anarchismo, anche senza saperlo: dai gruppi di acquisto solidale, alle banche del tempo, alle autogestioni, al vegetarianesimo, alle fabbriche recuperate. Spesso operiamo istintivamente con un principio di sostituzione e «sottrazione» dentro la società.

L’ANARCHICO sta «fuori e dentro» questo mondo, facendo durare – come suggeriva Calvino – nell’inferno dei viventi ciò che inferno non è, una città che è invisibile solo a occhi poco attenti, ma ben segnalata per uno sguardo libertario. Questo – ecco la scommessa delle Lezioni di Anarchia – potrà sempre accadere, anche mentre la Storia con la s maiuscola continuerà a bruciare i suoi eretici e a tacere sulla controstoria, rimuovendo dai «verbali ufficiali» chi ha rifiutato perfino il potere di veder riconosciuta la verità del proprio passato.