Mafie che abitano il centro-nord, a dispetto di proclami leghisti e rassicurazioni democratiche. Perfettamente integrate nel «mercato» delle imprese formato famiglia. Predisposte a governare l’anima «nera» della liquidità esentasse. E in grado soprattutto di «sviluppare» interessi sul crinale di legalità occulta, affari monopolistici, politica sussidiaria e poteri in affitto.

È la versione speculare al sistema molecolare, camaleontico, fuori controllo dell’Italia Duemila. Più inquietante della Piovra stereotipata, in quanto simile al «modello» Expo 2015, Mose e Tav. Meno scenografica di Gomorra proprio perché si occulta fin dentro il Palazzo. Una sorta di paradigma ben più che sociologico perimetrato da Rocco Sciarrone, al termine della lunga ricerca collettiva (con Dagnes, Martone, Storti, Pellegrino, Moiso, Donatiello, Scaglione, Mete, Corica, Di Gioia, Belloni e Vesco) che ha scandagliato Ponente ligure e Basso Lazio, Canavese e Reggio Emilia, Prato e Nord Est.

Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali (Donzelli, pagine XXII+412, euro 35) certifica l’evoluzione dell’«area grigia» che connette professionisti mafiosi e criminali in giacca e cravatta. Secondo Sciarrone, «in alcuni contesti del centro-nord, si dispiega uno spazio tra lecito e illecito in cui prendono forma rapporti di scambio reciprocamente vantaggiosi fra mafiosi, imprenditori, politici, liberi professionisti e funzionari pubblici. Non è un trapianto né una clonazione, nemmeno l’esportazione della mafia originaria. Sembra essere decisiva la presenza di soggetti «esterni» disponibili ad intrecciare rapporti di scambio con i mafiosi».

Non ci avevano raccontato che il Nord era immune dalle mafie, salvo episodiche infiltrazioni?

Questo racconto ormai è mistificazione. La nostra ricerca, durata un paio d’anni con interviste e approfondimenti “mirati” rispetto agli atti giudiziari, prospetta come le mafie al Nord non siano fenomeno nuovo. Mostriamo la loro continuità nel tempo e documentiamo le dinamiche attuali. Si tratta, appunto, di un fenomeno che in alcune aree del Nord è di lunga data: l’esempio più eclatante è la Lombardia. Ed è importante vedere le trasformazioni che ha subìto. Forse, adesso è diventato più pericoloso. Non soltanto perché è cresciuto quantitativamente ma in quanto si è trasformato qualitativamente. Aumentano le commistioni con la sfera legale dell’economia, della politica, delle istituzioni. Affiora la cosiddetta «area grigia», che non è termine evocativo o suggestivo. Vi prendono forma e si strutturano rapporti di contiguità, collusione e compenetrazione fra la sfera legale e l’illegalità. È l’area dove diventa difficile distinguere l’impresa sana da quella collusa o criminale.

Cosa emerge insieme alla Grande Crisi?

Quando parliamo di mafie del Nord non siamo di fronte al contagio di un organismo sano né all’invasione di un esercito. Conta molto di più l’accoglienza: le mafie trovano territori ospitali e porte aperte. Utilizzano varchi in alcuni ambiti dell’economia, della politica e delle pubbliche amministrazioni. Le mafie non sono gli attori che provocano una crescita dell’illegalità nel Nord, ma si sviluppano là dove sono già diffuse pratiche illecite. Trovano un tessuto già pronto. Se mai, lo amplificano e lo mettono a sistema. Una commistione fra criminalità economica e politica, corruzione e criminalità organizzata di tipo mafioso: rapporti complessi che si modificano nel corso del tempo. Nella situazione in cui possiamo avere una corruzione sistemica molto stretta, paradossalmente, può essere più difficile per le mafie riuscire ad infilarsi: magari, vanno in alcuni interstizi. Quindi, non bisogna immaginare solo le mafie come protagoniste dell’aumento dell’illegalità. Occorre saper leggere anche altre forme, come dimostrano casi recenti in Veneto e Lombardia.

Si può azzardare che al Nord c’è una sorta di predisposizione acquisciente e di sottile interesse anche finanziario?

Direi nemmeno tanto sottile. Senza generalizzare, sicuramente una parte del mondo imprenditoriale e politico trova estremamente conveniente imbastire alleanze nell’ombra anche con le mafie. Spesso sono reti illegali di più ampia portata, in cui gli attori mafiosi possono rivelarsi importanti. Non è una situazione che la società e i territori del Nord subiscono passivamente. In alcuni casi, c’è un’attrazione esplicita con tanto di attivismo. Certo, la crisi ha acuito tutto: abbiamo casi di imprenditori all’ultima spiaggia che per poter sopravvivere e restare nel mercato si rivolgono alle mafie. Qui i danni sono già tutti esplicitati: era quel che accadeva al Sud. Tuttavia, c’è chi invece cerca di essere competitivo alleandosi con soggetti criminali, mafiosi, colletti bianchi. È una specie di «investimento» nei mercati turbolenti che caratterizzano l’economia di questi ultimi anni…

Infine, il quadrante Nord Est con le tesi «negazioniste» e la malavita del Brenta. Non è più complicato di così?

Non c’è dubbio, come del resto si capisce con il «caso Aspide» sviscerato nell’ultimo capitolo del libro. Negare la presenza delle mafie è negare l’evidenza. Sull’altro versante, farei attenzione. È probabile che in Veneto la manifestazione della criminalità organizzata strutturata non segua il modello omogeneo tipico, invece, del Nord Ovest. È una tesi che esplicitiamo nella nostra ricerca, perché è cruciale mettere in evidenza i differenti meccanismi di insediamento ed espansione. Va distinta quella per via organizzativa, che caratterizza in particolare i «locali» della ‘ndrangheta, da quella di natura imprenditoriale. Le evidenze empiriche che abbiamo raccolto dimostrano che in Veneto l’incontro avviene più sul terreno del mercato. Con esiti e conseguenze non meno allarmanti. Anzi, a lungo andare molto più pervasive.