La fisionomia e il decorso biografico di Ercole Patti (Catania 1903- Roma 1976) potrebbero all’impronta sembrare tipici della sua generazione, non fosse la vena di singolarissimo narratore ma in realtà ritardataria visto che il primo romanzo, Giovannino, porta la data del 1954 quando la sua silhouette sembra già fissata una volta per sempre nella stessa di un prosatore d’arte dallo stile rapido e asciutto, di un cronista del qui-e-ora capace di cogliere con vivacità e leggerezza (vale a dire con ironia, mai con sarcasmo) le dinamiche e gli stereotipi del suo spazio ambiente, la borghesia che abita la raccolta sua più celebre dell’anteguerra, Quartieri alti (1940). A sua volta di estrazione borghese, legato come da una ipoteca sentimentale alle villeggiature di infanzia e adolescenza nella villa familiare di campagna a Trecastagni (calda couche femminile e sororale), abbandona presto, con il trasferimento a Roma, lo studio legale paterno e si avvia al giornalismo. Nonostante il suo primo sponsor professionale si chiami Telesio Interlandi, il rapporto con il regime (che alla fine considera, testuale, una «carnevalata») è di sostanziale estraneità e di fronda antifascista tanto che Patti accetta di andarsene dall’Italia per girare il mondo, specie l’estremo Oriente, da inviato speciale e al ritorno, nel ’40, si lascia imporre una rubrica di critica cinematografica, pure non tanto innocua se viene rinchiuso a Regina Coeli, dopo l’8 settembre, per avere scagliato più di uno strale contro la cinematografia fascista e attaccato in particolare Alessandro Pavolini e la sua pubblica concubina, l’attrice Doris Duranti.

Critico cinematografico
Proprio con il recupero integrale delle prose narrative e di viaggio anteguerra ora si apre il volume di evidenza monumentale, Tutte le opere (La nave di Teseo «le Isole», pp. 3.213, € 60,00), grazie alla acribia filologica di due specialisti, Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla, che ne firmano anche i saggi introduttivi, l’uno di profilo generale e l’altro dedicato alla attività del critico cinematografico (in parallelo all’amico Alberto Moravia e alla sua rubrica su «l’Espresso», Patti nel dopoguerra ha la propria nell’«Europeo» e poi in «Tempo»), un mestiere il cui lascito militante qui, nella seconda parte del volume, occupa oltre mille pagine: sia detto per inciso, Patti è un critico di formazione classicista e adora Charlie Chaplin ma è capace di individuare qualità diametrali negli esordi di Godard, Pasolini e Sergio Leone. Dunque, non avesse firmato in nemmeno vent’anni e nella forma prediletta della suite i suoi romanzi brevi (sei, fino al meta-racconto onirico e terminale, Gli ospiti di quel castello, 1974) oggi avremmo solo il Patti giornalista estroso e svagato, il protagonista di una mondana aneddotica, seduto in perpetuo con gli amici letterati e cinematografari nei caffè di Pazza del Popolo, tra gente accomunata da un totale scetticismo e da un gusto letterario che temeva o sospettava la forma-romanzo quale genere filisteo e alla moda (tra costoro, per esempio, sia Ennio Flaiano sia Sandro De Feo furono romanzieri di trafila ritardata e accidentata).
Viceversa i brevi romanzi di Patti, più che altro dei racconti lunghi dove i connettivi si riducono a ellissi o sfumano nei bianchi tipografici, aboliscono il tempo presente perché lo retrodatano alla adolescenza dello scrittore, nella Sicilia dei primi anni Venti. Non c’è un vero e proprio moto a ritroso ma un passato, piuttosto, che si accampa nel presente e lo esaurisce, lo sostituisce. Si badi, non c’è un filo di nostalgia, perché quel passato dura per lo scrittore quanto l’eternità laddove prevale, semmai, un combinato disposto, anzi una perfetta reversibilità, di malinconia, elegia e di necessaria ironia nel senso della distanza capace di inquadrare una materia di per sé incandescente che può spegnersi soltanto nella cenere di una sconfitta o di una tragedia, come accade nelle opere di vertice, La cugina (’65) e Un bellissimo novembre (’67).

Turbolenza adolescente
Attratto irrimediabilmente dall’esistenza fisica, specialmente tattile e visiva, per Patti la via maestra alla conoscenza del mondo è la sessualità e però svincolata o negata a un maturo godimento mentre viene fissata e imprigionata una volta per sempre nella fase più sorgiva e oscura del desiderio. Pare infatti non esista desiderio, nella narrativa di Patti, se non nei termini dell’Edipo e della turbolenza adolescente. La antica famiglia patriarcale e allargata è l’alveo accogliente e chiuso della iniziazione: in questo che in realtà è un gineceo, la donna più matura (una zia, una cugina) diviene agente di una iniziazione la cui dinamica impone di essere replicata a oltranza e sorprende il protagonista alla maniera di una reiterata agnizione, di una ossessione. L’adolescente esige di rimanere tale anche nell’età cosiddetta matura, quando l’eros nel ricordo si trasforma nell’incubo di una scena primaria tanto più attraente quanto più impossibile da replicare. Costui non vede la donna, è un misogino, nemmeno si interessa alla donna ma è fisso all’insorgere del proprio desiderio dove si rimescolano la tensione, la commozione e lo slancio insieme con il senso di una originaria trasgressione. Infatti, scrive Sarah Zappulla Muscarà nel saggio introduttivo, dalla pagina di Patti esala «un alito di morte» che «ne segna la scrittura impegnata a trasferire nel passato la realtà, nel tentativo di sottrarre il vissuto al fluire devastante del tempo, e a perseguire, con accanimento esclusivo, la ricerca della felicità». La morte e lo sfacelo psicofisico risultano pertanto i soli esiti ammissibili in questi romanzi della iniziazione e della reclusione edipica, come nel caso del protagonista di Un bellissimo novembre che nell’epilogo si suicida.
Ciò immette allo stile peculiare di Patti, che non va ascritto né alle squisitezze della prosa d’arte né al realismo convenzionale. L’unica eloquenza della sua scrittura è d’ordine visivo (per triste paradosso disastrose sono sempre state le trasposizioni cinematografiche anche quando il regista, per Un bellissimo novembre del ’69, si chiamasse Mauro Bolognini), la sola immaginabile destinazione del suo stile è l’epigrafe, come in una mesta elegia. Il suo editore storico, Valentino Bompiani, scrive in una lettera redazionale che «non c’è un grammo di troppo nella linea perfetta della pagina di Patti», mentre il suo ultimo editore per Mondadori, nientemeno Vittorio Sereni, sulle prime scettico se non prevenuto verso di lui, poi è costretto ad ammettere che pure «se non va in profondità, ha notevole agilità e nitore di presentazione e di narrazione».
Ha avuto sempre dei lettori ma non è stato mai uno scrittore à la page, Ercole Patti, d’altronde non ha mai firmato in vita sua una dichiarazione di poetica che non fosse una indiretta o implicita rivendicazione di indipendenza. Ha avuto fra i contemporanei interpreti importanti quali Arrigo Cajumi, Carlo Bo, Giuseppe De Robertis, Paolo Milano e poi, dopo una fase di latenza, nelle generazioni successive fra gli altri Giorgio Pullini, Eraldo Affinati e Massimo Onofri come se davvero esistesse una catena mai interrotta della fedeltà, infine propizia a questa meritoria edizione di Tutte le opere. Eugenio Montale, che pure gli era amico, disse una volta e con qualche malizia che Ercole Patti era un peso piuma della narrativa. Peso piuma, sì, ma un campione.