Un uomo in fuga da una condanna, braccato, catturato, libero per scadenza nei termini, e latitante tuttora, forse in Medioriente. La vita di Amedeo Matacena, erede della dinastia di armatori reggini, proprietari, tra gli altri asset, della nota compagnia Caronte, è burrascosa a dir poco. Lo avevano arrestato a Dubai ad Agosto di ritorno dalle Seychelles, per una condanna in giudicato a 5 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. Un verdetto giunto al termine di un complesso iter giudiziario durato dodici anni.

Coinvolto nella maxi-inchiesta Olimpia, che non solo ha scompaginato gli assetti delle maggiori cosche di Reggio, ma ha soprattutto svelato il ruolo della città come laboratorio di oscure trame fra ‘ndrangheta, massoneria, eversione nera e pezzi dello Stato. Ma in carcere negli Emirati c’è stato poco o affatto. L’iter dell’estradizione andava a rilento e lui si preparava, una volta libero, a garantirsi un’altra latitanza dorata. Magari spostandosi verso il Libano (come il suo ex collega in Parlamento, Marcello Dell’Utri) «individuato dallo Scajola per la possibilità di sfruttare le proprie relazioni personali al fine di fargli riconoscere il diritto di asilo politico» scrivono i giudici. Il progetto era quello di una «fusione inversa» tra le sue società, Solemar e Amadeus, al fine di costituire «le provviste finanziarie necessarie per proseguire in territorio estero la intrapresa latitanza, operazione resa più agevole dai contatti privilegiati garantiti da Scajola». I contatti, appunto.

Una rete fitta, a maglie strette, che si dipanava dai salotti e dai circoli della Roma bene fino al Paese dei cedri, il Libano, ritenuta oasi privilegiata per latitanti. Il perno dell’operazione è un giovane rampollo di una vecchia famiglia democristiana di Lamezia, Vincenzo Speziali jr. Trasferitosi a Roma, ad una festa esclusiva aveva conosciuto, e poi sposato, una nobile libanese, nipote del presidente Amine Gemayel. Entra nella cerchia del leader del partito delle Falangi, trasloca a Beirut, da lì diventa terminale di riferimento per latitanti in fuga. La consacrazione nel 2012 quando è tra gli organizzatori della Internazionale democristiana proprio nella capitale libanese. È lui a far da Cicerone alla folta delegazione italiana, da Casini a Lorenzo Cesa. E soprattutto Claudio Scajola. Tra Speziali jr e Scajola nasce un’intesa. Immortalata dalle telecamere nascoste della Dia che ritraggono i due in un bar della Capitale. Per gli investigatori Speziali jr avrebbe tessuto «rapporti privilegiati con apparati istituzionali libanesi in grado di favorire l’introduzione di Matacena in quel territorio». È lui stesso ad avvalorare questa tesi durante alcune conversazioni intercettate. Tranquillizza Scajola spiegando che «io sono programmato per non sbagliare».

Nel mentre, a pianificargli la latitanza, si muove attivamente la moglie di Matacena, Chiara Rizzo. È lei a prender contatto con l’ambasciatore italiano al Principato di Monaco, il reggino Antonio Morabito, non indagato. A cui la moglie dell’armatore chiede consigli su come garantire assistenza legale al marito, detenuto negli Emirati Arabi: «No, intanto le cose stanno che io ho preso degli avvocati lì a Dubai, il giudice ancora non ha deciso…». Morabito le suggerisce di rivolgersi all’ambasciata italiana. Ma l’attivissima moglie fa anche di più. Chiama la figlia di Amintore Fanfani, Cecilia, per informarla che l’avvocato «insisterà per farlo rimanere a Dubai perchè quel reato non esiste a Dubai e che, a suo parere, non esiste neanche in Italia», ribadendo che è «tutta una questione politica». Ma il tempo stringe. A fine 2013, in prossimità della scadenza della custodia cautelare, bisogna sbrigarsi a spostare Matacena da Dubai verso altro Stato. E così la moglie dell’armatore telefona a Scajola che si mostra pronto a far il possibile per trovare un Paese «amico» in cui trasferire l’ex parlamentare in fuga dalla giustizia italiana. Il Libano, appunto, un posto «migliore» di Dubai e «più vicino» all’Italia.

La famiglia Matacena ha anche il problema dello spostamento del denaro da un conto corrente a un altro. Rizzo sembra trovare ostacoli con la banca, e Scajola si mette a disposizione. La moglie di Matacena sembra spazientirsi: «Prendo i miei soldi, e se non li volete spostare tutti in una volta spostateli come cavolo volete voi, a 10mila euro al mese, come cazzo vogliono». A quel punto Scajola coinvolge nell’operazione anche la sorella Maria Teresa, incaricata di contattare un «uomo di fiducia» di Montecarlo che avrebbe potuto eliminare gli ostacoli finanziari della donna. «Gli ho detto che deve farmi un miracolo, si inventi cosa cazzo vuole ma faccia un miracolo». Ma a Scajola il miracolo questa volta non è riuscito.