Mentre il presidente Beji Caid Essebsi partecipa al vertice dei paesi arabi e sunniti con Trump a Ryadh, ribadendo tutto l’impegno possibile contro i «flagelli transfrontalieri» del terrorismo, a Tunisi il premier Youssef Chahed convoca la classica riunione d’emergenza con i ministri della Difesa e dell’Interno. Oggetto: la situazione che degenera rapidamente nel sud del paese, da mesi teatro delle proteste sociali imbastite da un movimento che da ieri ha anche il suo primo “martire”. Si chiamava Mustapha Sekrafi, il 20enne che non è sopravvissuto alle ferite al torace e alla testa rimediate negli scontri con le forze di sicurezza a El Kamur, nella provincia di Tataouine.

È qui, nella regione meridionale che un tempo per i francesi era la quintessenza della lontananza, il centro di una protesta sempre più estesa, che arriva a minacciare gli interessi petroliferi del paese. Da qui la reazione muscolare del governo. E la tesi circolante anche in parte dell’opinione pubblica che la protesta sia infiltrata da forze jihadiste libiche.

Intanto le reiterate richieste di «occupazione e crescita» provengono da un movimento che insiste molto sulla redistribuzione dei proventi degli idrocarburi, ovvero l’obbligo per le multinazionali che operano qui a impiegare mano d’opera locale. Tunisi ha risposto mantenendo la promessa di inviare l’esercito. A difesa di impianti da cui si estraggono ridotte quantità di greggio e gas, ritenute però strategiche mentre altre voci dell’economia nazionale, a cominciare dal turismo, tendono progressivamente allo zero.

Nel governatorato di Tataouine sono stati così riaperti con la forza i siti che i manifestanti erano riusciti a bloccare. A cominciare dalla stazione di pompaggio di Vana dove operano l’austriaca Omv e l’italiana Eni e dal giacimento di Chouech Essaida, controllato dalla canadese Serinus.

A Tataouine i manifestanti dispersi dalle zone degli impianti con i gas lacrimogeni hanno dato vita a blocchi stradali e barricate di copertioni in fiamme, bloccando la città. Fonti locali parlano di incendi appiccati al distretto della Guardia nazionale e a una stazione di polizia, mentre l’esercito prendeva posizione davanti alle sedi delle istituzioni. Tutto questo mentre si svolgeva lo sciopero generale proclamato dal coordinamento dei manifestanti di al Kamur. Esentati forni, scuole e ospedali, questi ultimi in difficoltà nel gestire il flusso di feriti e intossicati dai gas per mancanza di ambulanze e bombole di ossigeno.

La situazione in queste ore sembra degenerare anche nella provincia di Kibili, verso il confine algerino. Qui è la compagnia anglo-francese Perenco che è stata costretta a fermare le attività estrattive in due dei suoi tre impianti, a Targa e Baguel. Nella regione di Sfax, invece, la britannica Petrofac è tornata a minacciare di chiudere i battenti per le proteste.