I cancelli sono stati chiusi nel giro di poche ore. Porte sbarrate e lavoratori «messi in libertà», liberi anche da qualsiasi straccio di tutela. I 256 dipendenti dello stabilimento Riva Acciaio di Lesegno, piccolo borgo in provincia di Cuneo, sono in presidio da giovedì davanti alla loro fabbrica, dopo la decisione della famiglia lombarda di cessare ogni attività del gruppo Riva Forni Elettrici, in seguito al sequestro di beni e conti correnti da parte della magistratura tarantina.

All’interno della fabbrica di Lesegno si producono barre e billette di acciaio, che vengono impiegate soprattutto nella realizzazione di macchine agricole. «Qui dentro ci sono 30 mila tonnellate di materiale ordinato da clienti e in produzione. A causa di questo blocco, oltre a non avere nessuna garanzia per i reddito dei lavoratori, si rischiano di perdere i tanti acquirenti» spiega Corrado Denaro, Fiom Cuneo. Primo cliente è la Caterpillar. Ma le ripercussioni potrebbero estendersi a un’area molto più ampia di imprese che operano in Piemonte, 12-13 mila aziende che trasformano acciaio, dalla metallurgia alla meccanica strumentale.

«Non possiamo diventare vittime di una rappresaglia» dicono a denti stretti i lavoratori. Venerdì ai cancelli è arrivato il segretario generale delle tute blu Cgil, Maurizio Landini, accolto da un’ovazione: «Il governo convochi un tavolo e avvii il commissariamento, al fine di garantire occupazione e continuità produttiva». Il ricorso alla cassa integrazione per i 256 sembra possibile, anche l’azienda, nonostante scarichi le responsabilità sulla magistratura, si è detta pronta a collaborare con tutte le istituzioni per ricercare le migliori soluzioni. «La cassa è importante – precisa Landini – ma non sufficiente. Il vero problema è far lavorare gli operai, la questione è la ripresa produttiva».

I lavoratori non mollano il presidio di Lesegno. La preoccupazione più grande è lo spegnimento dei forni. «Significherebbe lo spegnimento dello stabilimento, non possiamo permetterlo. Sappiamo bene, parlando di siderurgia, che l’arresto o l’accensione di un forno dura settimane», racconta Barbara Tibaldi, segretaria provinciale Fiom, che giovedì è stata convocata d’urgenza all’Unione industriale: «Tutto è precipitato in poche ore, l’azienda ci ha annunciato che la famiglia Riva intendeva chiudere ogni sito perché senza soldi per gli stipendi. Non c’è stato nemmeno il tempo di accennare agli ammortizzatori che tutti i lavoratori erano stati messi in libertà e i cancelli chiusi».

In Piemonte, tra le tante ramificazioni del Gruppo Riva ci sono anche due stabilimenti dell’Ilva, uno piccolo a Racconigi (poco meno di 200 operai) e uno più imponente e storico a Novi Ligure, un tempo Italsider, che con i suoi oltre mille dipendenti (800 addetti diretti, 250 nell’indotto) è un pezzo di storia industriale della regione. Nelle aree di stoccaggio arrivano i rotoli d’acciaio prodotti e fusi a Tarano. A Novi si lavora acciaio di alta qualità pronto a rivestire le automobili. «Noi – spiega Mirko Oliario, Fiom Alessandria – non abbiamo subito grandi ripercussioni rispetto alla decisione su Riva Acciaio. A parte un periodo di cig un’estate fa, la fabbrica non si è mai fermata. Restano comunque molti interrogativi sul domani. Aspettiamo a breve la presentazione del piano industriale da parte del commissario governativo dell’Ilva Enrico Bondi. Senza nuovi investimenti (pure in sicurezza, un anno fa ci qui morì un operaio) sarà difficile immaginare un futuro. Bisogna chiarire, però, che quello che sta succedendo all’intero Gruppo Riva è di totale responsabilità della famiglia proprietaria. La siderurgia in Italia deve essere tutelata, il governo se ne assuma la guida».

Anche in Veneto c’è grande apprensione. Ieri Piazza dei signori, in pieno centro a Verona, è stata invasa dai lavoratori della Riva acciaio. All’ex fonderia Galtarossa, che a marzo ha ottenuto l’Autorizzazione integrata ambientale, c’erano commesse fino a dicembre. Andrà tutto in fumo per i 479 lavoratori ai quali si aggiungono gli operatori dell’indotto.