Bernardino Ciferri, “Bacco che munge una capra” (dalla scultura attribuita a Gianlorenzo Bernini), Eton College Library

 

Bernardino Ciferri, “Testa di Alessandro il Grande a mezzobusto”, Eton College Library

 

Di Richard Topham, residente tra fine Sei e primo Settecento nella tranquilla Windsor, poco lontano da Londra, non possediamo un ritratto. Nemmeno letterario. Di buone origini ma non nobile, mai sposato, con poche salde amicizie e qualche interesse politico, Topham sembra anticipare certe figure di pedanti eruditi inglesi di campagna, che avrebbe argutamente immortalato all’inizio del secolo successivo Jane Austen: un personaggio schivo, vissuto ai margini dei grandi eventi. Un ‘Carneade’ per gli storici dell’arte fino agli anni novanta del Novecento quando, con l’occasione di un restauro, iniziò a suscitare un crescente interesse quella che era stata la ‘segreta’ passione del cólto inglese: un’imponente collezione di disegni dall’Antico, da lui composta negli ultimi quindici anni di vita e lasciata in eredità, dopo qualche traversia, all’Eton College, dove ancora oggi è conservata.
Si tratta di trentuno album, comprendenti più di duemila disegni e acquerelli di vari artisti, oltre a circa settecento incisioni: un museo cartaceo in grado di offrire un affresco di prima mano delle antichità presenti a Roma all’inizio del Settecento grazie a prove grafiche appositamente commissionate a pittori di stanza nella città papale. Condotta a distanza tramite agenti, ogni fase dell’operazione fu complicata: la selezione dei soggetti da ritrarre e la valutazione della qualità delle copie, per via epistolare; la spedizione dei fogli e la loro attenta catalogazione una volta arrivati in Inghilterra. Se si considera che l’erudito settecentesco forse non fu mai in Italia e di certo non fece mai parte della Society of Antiquaries di Londra, l’impresa assume dei contorni quasi surreali. D’altra parte, organizzata secondo un ordine topografico, la collezione è ancora oggi largamente misteriosa nelle sue finalità: forse Topham inseguì velleità enciclopediche; magari pensò di farla tradurre a stampa. Non accessibili al pubblico mentre era in vita, di certo i disegni (stando al suo testamento) dovevano servire a «all learned persons» dopo la sua morte, nel 1730.
Insomma, un problema intrigante, sul quale ha di recente fatto luce un importante volume corale edito a Parigi da Marie-Lou Fabréga-Dubert con il titolo Une histoire en images de la collection Borghèse Les antiques de Scipion dans les albums Topham (Musée du Louvre Editions, pp. 552, 680 ill., euro 89,00), dove, nonostante il comprensibile focus dedicato alle antichità Borghese (esposte oggi in gran parte al Louvre), non poco spazio è dedicato alle vicende biografiche di Topham (Patricia Witts e Lucy Gwynn), a indagini materiche e tecniche sulla sua intera raccolta (Valentine Dubard e Marie-Lou Fabréga-Dubert), a considerazioni sullo statuto del disegno antiquario tra Cinque e Settecento (Amanda Claridge) e ad approfondimenti sul contesto nel quale l’inglese operò: dal mercato romano del diciottesimo secolo (Paolo Coen) al contemporaneo collezionismo grafico londinese con il suo vibrante classicismo, i suoi intenti didattici e i suoi vivaci scambi internazionali sullo sfondo del Grand Tour. Un contributo, quest’ultimo, di Adriano Aymonino e Mirco Modolo, impreziosito da un utile regesto delle raccolte settecentesche di disegni dall’Antico conservate in suolo inglese, dal quale emergono tanto l’esemplarità dell’esperienza di Topham, quanto le tangenze della sua ricerca con quelle di altre note figure dell’epoca, come l’architetto e antiquario John Talman (1677-1726).
Il volume, come sottolinea Salvatore Settis nella sua bella ouverture, si presenta dunque come un’operazione editoriale innovativa, ma ben ancorata in una prestigiosa tradizione di studi, che già ha avuto modo di misurarsi negli ultimi decenni con vicende straordinarie di traduzione grafica dell’Antico quali il Museo Cartaceo di Cassiano dal Pozzo o l’Antiquité expliquée di Bernard de Montfaucon: esperienze sei e settecentesche preziose per la nuova centralità accordata alla lettura visiva (iconografica e formale) degli oggetti, in un rapporto non più ancillare con le fonti scritte.
I bassorilievi, le statue, le urne e i vasi antichi (o stimati tali), presenti all’inizio del Settecento nel parco attorno a Villa Borghese, sulle sue facciate e al suo interno, occupano un ruolo di spicco tra i fogli oggi a Eton. Alla celebre collezione romana, assemblata all’inizio del Seicento dall’omonimo cardinal Scipione e acquistata quasi in blocco da Napoleone nel 1807 per essere trasportata a Parigi, Topham dedicò infatti addirittura tre album di disegni, ora riprodotti e commentati nel volume edito da Fabréga-Dubert, alla quale già si devono altri preziosi contribuiti sulle antichità Borghese. Generosamente illustrata, la pubblicazione esalta il valore documentario dei fogli Topham, abbastanza aderenti agli oggetti (per quanto non in scala e di mano diverse) e assai utili per mettere a fuoco l’assetto della raccolta romana prima del suo imponente riallestimento tardosettecentesco, tanto da consentire alla studiosa francese di avanzare nuove proposte sui restauri e sugli spostamenti dei suoi pezzi. Intriganti, poi, certe scelte operate dall’erudito, come l’inclusione della Capra Amaltea: in realtà una scultura non antica ma moderna, associata a Bernini da Longhi all’inizio del Novecento con un’attribuzione oggi non più unanimemente accolta dagli studiosi ed evidentemente già non scontata nel diciottesimo secolo.
Come sottolinea la curatrice del volume, l’attenzione quasi maniacale di Topham nella selezione qualitativa delle opere (solo quelle considerate antiche, né troppo restaurate, né di stile ‘barbaro’), meglio se esposte in eccellenti condizioni di visibilità (anche a costo di far utilizzare impalcature ai suoi disegnatori), sembra suggerire la ferma volontà dell’erudito di offrire ai posteri un importante strumento di conoscenza tipologica del mondo antico. Nel caso della Borghese questo approccio venne favorito dalla disponibilità di una guida della collezione data alle stampe nel 1700, che Topham utilizzò nella scelta, quasi volesse davvero fornire un contesto illustrativo alla parola scritta: un problema non nuovo (già assillava i lettori fiamminghi di Vasari nel Cinquecento), ma vivace premessa, in questa Inghilterra vitale e appassionata, di molte nuove cose importanti.
Cresciuta nella tranquilla cittadina di Windsor, questa ansia di conoscere tramite le immagini, che infiammò il riservato Topham (così come tanti altri suoi connazionali), non sembra infatti aprire solo alla temperie neoclassica d’oltremanica (alle porte), quanto addirittura alla meravigliosa stagione della connoisseurship inglese del secolo successivo e all’altissima tradizione novecentesca di studi che ne è seguita. E così, fino ad arrivare a un’opera fondativa per la ricerca storico-artistica come L’antico nella storia del gusto di Francis Haskell e Nicholas Penny (edizione originale inglese, 1981), con la sua squisita sensibilità per i moderni contesti visivi di ricezione dei capolavori antichi. Un testo che, allargando i confini culturali della disciplina, ha insegnato a diverse generazioni di studiosi in Europa quanto possa essere mutevole la fama degli artisti, altalenate il gusto dei critici, capricciosa la smania dei collezionisti, ma soprattutto vivace e ricchissimo il dialogo tra oggetti d’arte di epoche diverse, per citazioni, evocazioni, emulazioni o semplici riflessi. Un testo che dovrebbe ancora oggi rileggere chiunque pensi che sia possibile fare critica senza opere e teorizzare senza storicizzare.