Il romanzo d’esordio di Linda Barbarino – La Dragunera (Il Saggiatore, pp. 168, euro 17) è scritto in dialetto siciliano: si tratta di una particolarità fondante. Leggendolo, il ritmo cantilenante della lingua rimane impresso nella mente, contribuendo ad accentuare il carattere della vicenda narrata: ancestrale.

IL TESTO SI ARTICOLA sull’alternanza di due storie: da una parte la famiglia di Don Tano e Donna Angelina, i loro figli Paolo e Biagio con sua moglie la Dragunera, dall’altra Rosa Sciandra, sola nella sua casa in cui esercita il mestiere. Uno dei collegamenti fra i due blocchi narrativi è il sentimento d’amore che Rosa prova per Paolo e la voglia e l’affetto che lui sente per lei.
Il racconto che Barbarino fa della loro intesa esprime bene la passionalità che la caratterizza, ma a un certo punto Paolo dovrà emanciparsi da questa relazione chiacchierata e cercare moglie. Prende questa decisione soprattutto perché la sua storia con Sciandra rappresenta l’unico punto debole su cui può insistere il fratello Biagio: fra i due esiste da tempo una faida, un contrasto accentuato dalla scelta di Biagio di sposare la Dragunera.

In italiano la parola non esiste, ma se ci fosse suonerebbe ugualmente bene: dragonessa. Nel romanzo Barbarino la usa insieme al sinonimo «magara» che è più facile collegare al suo significato di maga, o meglio, strega.

L’ESSERE DRAGUNERA, a quanto si evince dalla storia che ci racconta Barbarino, è un fatto ereditario, ovviamente per discendenza matrilineare: era dragunera la nonna della moglie di Biagio e ovviamente la madre. Lei da loro avrebbe ereditato il potere di fare del male alle persone con delle fatture demoniache, eppure: «se non fosse stata magara, non c’era che dire: fine, alta, che il marito le arrivava neanche alla spalla, e capelli luciti come una manta. Non ci assomigliava a sua madre, quella grassa era e immiruta, faceva un feto che si sentiva dalla punta della strada». Barbarino lo sottolinea in più occasioni: la moglie di Biagio non ha la mostruosità delle sue ave, però delle streghe ha due caratteristiche fondamentali: ammalia gli uomini, li fa innamorare inducendo un’ossessione amorosa invincibile e si comporta come i maschi. Si sa, solo le streghe hanno questo coraggio.

La lettura del romanzo è avvincente, specialmente nella parte dedicata alla storia della famiglia di Don Tano. In particolare il racconto della relazione matrimoniale o meglio delle liti coniugali fra Don Tano e Donna Angelina è davvero godibile: «per questo lo aspettava nel letto la sera quando gli doveva dire qualche cosa. Perché aveva tutto il tribunale dei santi a proteggerla». La donna litiga col marito stringendo santini e bisbigliando preghiere. Barbarino sa esprimere con veridicità le ragioni del cuore, per dirla con Pascal, che animano l’anziana madre dilaniata dal conflitto fra i suoi figli.
Più diluita la parte dedicata alla Sciandra, non rispetto alla forza espressiva della lingua di Barbarino: essa è la vena del romanzo, l’autrice mostra di conoscere le emozioni, di saperle raccontare.

PROCEDENDO nella lettura dei capitoli dedicati a Rosa, però, ci si convince che questo personaggio ha meno da dire, come se avesse meno storia, anche se non è così. La Sciandra è una prostituta e come tale è conosciuta nel paese, ma essa viene raccontata solo in relazione al suo amore per Paolo e all’ossessione che ha per la sua infanzia, in particolare per la sorella e per la casa in cui è nata e dove è rimasta orfana. La ragione di questa rarefazione narrativa nei capitoli che la raccontano va forse cercata in una difficoltà comprensibile e che non va sottovalutata: non è affatto semplice azzardare e immaginare le emozioni di una puttana.