Un fiotto intenso e «altro» di musica, immagini, danza, invenzione linguistica scorre, come un fiume carsico, sotto la crosta dura, apparentemente impenetrabile della nostra cultura, rinascimentale e barocca, protomoderna o già avviata a falcate lunghe e prepotenti nella modernità più vicina a noi, quella alle soglie dell’Illuminismo. L’«altro» da noi che poi in musica si ritrova oggi in quasi ogni profilo melodico-ritmico di una qualsiasi canzone si chiama Africa. Lo trovate anche, ad esempio, in ogni movimento coreutico che non sia inchiavardato alla rigidità formale delle danze di coppia europee. S’è detto Africa, ma a volte gioverebbe dire Afro-America, perché il periplo di sangue, lacrime e soldi facili dello schiavismo, prima fenomeno mediterraneo piuttosto rimosso in Portogallo, in Spagna, nell’Italia soprattutto meridionale, ma con capisaldi anche a Genova, a Venezia, a Firenze, ha toccato anche poi, e massicciamente, le Americhe.

RIMOZIONI
C’è una storia culturale «nera» rimossa venuta a patti di necessità e di mediazione con le nostre storie di «bianchi» che ci scorrono dentro, ma dipanare una matassa che i fatti della storia hanno più volte ingarbugliato, spesso deliberatamente, per esorcizzare quanto era e resta «perturbante», alle nostre coscienze dilavate e candide, al più ammiratrici di quanto è «esotico» e dunque innocuo, è impresa titanica. Ci sta provando, da molti anni, Gianfranco Salvatore, professore di etnomusicologia all’Università del Salento, studioso attento del portato culturale afroeuropeo e afroamericano non solo sul dato meramente musicale, e dagli interessi quanto mai vasti, in uno spettro di proposte critiche che arrivano alle soglie ultime della popular music contemporanea (i Beatles, i Pink Floyd, ad esempio). Salvatore ha avuto la curatela e gran parte dell’impegno di ricerca e scrittura in un testo ponderoso che va ad aggiungere tasselli significativi e molto spesso decisamente innovativi sulla storia dei rapporti tra africani schiavizzati ed europei del Mediterraneo, offrendoci un angolo prospettico «altro» anche rispetto ai «cultural studies» che hanno trattato delle diaspore culturali nel jazz e nelle musiche afroamericane in genere. Il tutto è confluito in Il chiaro e lo scuro, Argo editore, con saggi anche di Giuliana Boccadamo, università di Napoli, competente nelle tematiche socio-religiose e degli schiavi musulmani a Napoli, Norbert Cyffer, linguista ed etnologo, professore di African Studies a Vienna, Hubert Houben, docente di storia medievale, Paul H.D. Kaplan, specialista di storia dell’arte, studioso di iconografia del soggetto africano in Europa, John M. Lipski, professore e storico di linguaggi afroispanici, Kate Lowe, specialista di storia del Rinascimento e in particolare della storia culturale della diaspora africana, Michele Rak, teorico e storico del mutamento culturale. Un ventaglio di specialisti che, come si può intuire dalle competenze specifiche, vanno a riempire la trama svuotata della storia dei neri e dei «mori» (anche se il termine non necessariamente e non sempre ha significato solo «di pelle scura», nella nostra storia) resi schiavi e a servizio forzato nell’Europa del sud, almeno a far data dal 1444, quando il primo contingente di schiavi neri approdò, coi ferri al collo e nella disperazione più cupa, in Portogallo.

TRACCE
È pressoché inevitabile che la presenza (assai più consistente di quanto saremmo portati a credere) di manodopera forzata nera e in condizioni spesso anche diverse sia da quelle dei neri negli Stati Uniti, sia da quelle di chi fu portato a forza nelle Antille e nell’America del sud abbia lasciato segni, tracce, sedimenti che hanno incrociato le nostre culture dominanti per secoli. Lasciando anche segni iconografici profondi: ad esempio i «ritratti con paggi neri» schiavi raffigurati accanto ai padroni bianchi nobili e/o benestanti diffusi in decine e decine di quadri. Ne dipinse anche Tiziano. O i gondolieri neri a Venezia. Ma è un dato di fatto perfettamente ricostruibile che gli schiavi neri parteciparono dello stesso humus culturale del rito, delle feste, laiche e religiose, della musica, in teatro di strada e in danza, delle classi popolari urbane autoctone, rari momenti di svago per una vita fatta di lavoro forzato e dovuto. Un fenomeno molto evidente nella Napoli vicereale cinquecentesca e del secolo successivo. Altrettanto spesso lasciando segni in culture più «alte», dove oggi ben pochi azzarderebbero origini africane a fenomeni per noi sbrigativamente ricompresi nella «nostra» cultura, calato il sipario sui documenti di immediata evidenza.
Ad esempio è il caso della danza Sarabanda (o Zarabanda), entrata anche nella musica strumentale «classica», e addirittura protagonista inconsapevole di un doppio cerchio geografico necessitato dalle pratiche schiavistiche. Nata nelle Americhe dall’incontro e scontro tra pulsioni coreutico-musicali nere e bianche. Ritornata sui velieri a Siviglia, a Lisbona, a Napoli, a Bari, come la Ciaccona e la Contradanse. Il documento forse più interessante che Salvatore rintraccia per cominciare ad erigere un «vero e proprio monumento culturale alle culture diasporiche» nate in ambito schiavistico è la ricognizione nelle «canzoni moresche» come venivano cantate e suonate a Napoli e altrove. Suonate da ensemble con liuti, ciaramelle, tamburelli e voci, ballate con dinamismo cinetico secondo i passi (ovviamente considerati lascivi, per ovvio pregiudizio etnocentrico: come saranno considerate secoli dopo le movenze «esotico -erotiche» di Josephine Baker) della «tubba catubba» o fors’anche «sfessania» o «canazza» su profili ritmico-melodici concitati.

PARODIE
Erano nate oralmente per filiazione di repertori neri iberici, giravano in forma orale o scritta, sfiorarono anche i compositori «protoclassici», ma è formidabile l’affondo storico-linguistico che in diverse diramazioni Salvatore e gli altri propongono per spiegare quanto prima veniva considerato poco più che un gioco di sgrammaticate onomatopee musicali nonsense, nei testi rimasti considerati poco più che parodie di un napoletano sgrammaticato misto a suoni grezzi e sfocati degli schiavi neri che «parlavano male».
Qui si affaccia quello che Salvatore considera il «monumento delle culture delle diaspore in età protomoderna», la lingua kanuri, di ceppo nilo-sahariano. È la ricostruzione possibile ed ex post di una vera lingua africana (infiltrata di termini arabi) attraverso i testi delle moresche, che ci fa ricostruire anche origini e tratti culturali specifici degli schiavi neri, indagando un «focus linguistico» rimasto scritto che corrispondeva all’impero da cui partirono fortissime razzie di schiavi: il Bornu islamizzato forte di una formidabile cavalleria «moderna» con cotte, spade, archibugi. Urgono esempi. Nei richiami iniziali di alcune canzoni moresche si sentiva cantare, a Napoli, l’incomprensibile «Allala pia calia»: così come il trascrittore aveva reso in parole sulla carta: Alla la sta per «Allah lafia», e dunque «Salute» o «Salve, in nome di dio», calia è l’antico kanuri per «schiavo maschio». Dunque un saluto evidente per iniziare la canzone rivolgendosi a un pubblico ben preciso. Se poi era l’altrettanto (apparentemente) incomprensibile «A la lappia camocan», il tutto decrittato suonava alle orecchie del pubblico di schiavi come «Salve a tutti, adulti e giovani, uomini e donne». «A la gura gidde» era «Dio ti protegga», attraverso progressivi slittamenti ortografici. «Le le calia» era un «Ehilà, schiavi!». E così via. Mai fidarsi degli apparenti nonsense. La storia ne tollera ben pochi, specie quando c’è in gioco qualcosa che aiuta a sopravvivere i più fragili. Come scoprirete in Il chiaro e lo scuro.