A fame, peste et bello libera nos, Domine». Una litania dal sapore medievale che per secoli ha invocato la protezione di Dio dai flagelli più temuti e un trinomio che in meno di tre anni ha riconquistato rilevanza.

Era solo il 2017 quando veniva pubblicata la versione italiana di Homo deus. Breve storia del futuro di Yuval Noah Harari, storico israeliano. Già nella quarta di copertina, con spregiudicatezza poco lungimirante, si puntava al «XXI secolo, in un mondo ormai libero dalle epidemie, economicamente prospero e in pace», che proiettava l’Homo sapiens a Homo deus anche grazie allo sforzo riuscito dell’umanità nella «impresa che per migliaia di anni è parsa impossibile: tenere sotto controllo carestie, pestilenze e guerre». Non che l’umanità se ne fosse davvero liberata nel recente passato: le guerre si sono mosse su perimetri locali o regionali, magari mosse da logiche e interessi internazionali. Le epidemie hanno continuato il loro corso, tendenzialmente privilegiando i poveri per quelle trasmissibili e le vittime del benessere per quelle non-trasmissibili, come tumori e patologie cardiocircolatorie.

E la fame? L’insicurezza alimentare ha caratteristiche complesse, ma qualunque sia l’analisi delle sue dimensioni non è mai scomparsa, e nel 2009 affliggeva più di un miliardo di persone.

Persone colpite da spirale dei prezzi delle derrate, perdita di occupazione e reddito a seguito della crisi economica e finanziaria globale. Non dalla mancanza globale di cibo. Ritornata nell’ultimo decennio al più strutturale valore di 7-800 milioni di persone in condizioni di cronica insicurezza alimentare, la fame non è mai stata debellata, è tornata a crescere in questi anni ed è sempre più accompagnata da quella nascosta che colpisce circa due miliardi di persone con sufficiente apporto calorico, ma deficitarie di nutrienti chiave per la nutrizione. È la semplificazione della dieta (per esempio a prevalente base di cereali) dettata da ristrettezze economiche, o la sua banalizzazione, questa magari frutto di analfabetismo alimentare, pressione disinformativa dei mezzi pubblicitari o desertificazione di un sistema alimentare limitato a centri commerciali.

Sembrerebbe quasi di rinobilitare le parole di Harari quando afferma che «è più probabile che l’uomo medio muoia pe un’abbuffata da McDonald’s piuttosto che per la siccità, il virus Ebola o un attacco di al-Qaida». Fame, peste et bello tornano quindi in auge. E ai flagelli dal sapore medievale se ne aggiunge uno più contemporaneo: quello climatico. Nelle preghiere dei secoli scorsi non si implorava il clima, lo si prendeva passivamente come fatto naturale o divino. Oggi si assiste ai suoi effetti con analoga impotenza, ma adesso l’uomo ha grande potenza sulle cause. Fame, peste, bello et clima hanno un denominatore comune: gli squilibri e le ingiustizie. Che non sono solo perdita di baricentro, ma deterioramento delle priorità collettive, cultura di rapina sulle risorse, indifferenza intergenerazionale, rottura dei meccanismi solidali, ignoranza ecologica. Il ripristino di equilibri e giustizia sociale e climatica è ineludibile.

Sul fronte alimentare, l’agricoltura biologica rivendica ruolo e meriti: finora identificato come un metodo produttivo, su questi temi ambisce a essere anche modello di sviluppo e strategia politica. L’approccio agroecologico del bio è sobrio in energia e agrochimica, entrambi oggetto non solo di fiammata dei prezzi, ma anche di embargo, dipendenza da Paesi terzi e impatto climatico: il bio guarda ai servizi ecosistemici e all’investimento sul suolo con conseguenti benefici sulla risorsa acqua. Il biologico tende alla salubrità dietetica rigettando la zootecnia industriale; è attento agli sprechi anche per una migliore educazione alimentare, con a cuore l’economia famigliare e l’investimento in salute che comporta (le mense scolastiche). Restano nodi da risolvere: giusto prezzo ai produttori, consolidamento delle alternative distributive, eliminazione di ogni ombra sul lavoro agricolo… Ma se si vuole superare il fatalismo che annichiliva l’uomo medievale, è necessario dotarsi di nuove priorità sociali, economiche e ambientali rispetto alle quali il bio può divenire protagonista per un modello capace di futuro.