È una storia di coincidenze e ritrovamenti straordinari quella della realizzazione di Dawson City: Il tempo tra i ghiacci di Bill Morrison, che con questo film ha partecipato al concorso di Orizzonti dello scorso festival di Venezia, e tornerà in Italia a giugno per una retrospettiva a lui dedicata dal Cinema Ritrovato di Bologna.

Tutto comincia nel 1978 quando in Canada, a Dawson City, durante i lavori per costruire un centro ricreativo vengono scovate delle pellicole cinematografiche sepolte nel ghiaccio dello Yukon, in una vecchia piscina coperta a lungo dimenticata. Bill Morrison lavora da sempre con le pellicole del cinema muto: nelle sue opere la traccia lasciata dalla decomposizione del film in nitrato è importante quanto l’immagine stessa, è il segno della natura effimera del patrimonio cinematografico – si calcola che il 75% dei film muti sia andato perduto, spiega una didascalia di Dawson City – come della stessa natura umana.

Anche gli oltre cinquecento film e notiziari cinematografici che erano sotto terra recano i segni del deterioramento dovuto però all’ «incuria umana»: sono stati macchiati dall’acqua e trattati senza le dovute precauzioni prima che ne venisse compreso il valore. «Per questo la loro decomposizione non è del tipo che di solito prendo in considerazione – spiega Bill Morrison – È superficiale, ostruisce la visione dell’immagine piuttosto che interagire con essa».

Nel caso dei film oggi custoditi al Dawson Film Fund il regista però fa un’eccezione, perché il deterioramento di quelle immagini «faceva parte della storia che volevo raccontare». E cioè quella di Dawson City, cittadina edificata alla fine dell’Ottocento sulle rive del Klondike River all’apice della Gold Rush, la febbre dell’oro che portò decine di migliaia di «prospectors» ad attraversare il gelo e i ghiacci in cerca di fortuna.

Dal tesoro ritrovato e utilizzato dal film di Morrison emergono piccoli frammenti di storia americana – il campionato di Baseball del 1919 dei Black Sox, i newsreel che documentavano la corsa all’oro, le grandi fortune finanziarie sorte nella neonata cittadina di frontiera, le lotte sindacali dei minatori, i film che arrivavano a Dawson per intrattenere il pubblico e poi venivano abbandonati lì dai distributori perché era troppo costoso rimandarli indietro. Messi insieme questi frammenti raccontano entrambi i volti dell’American Dream, quello abbagliante e pieno di promesse e il lato oscuro dell’avidità e dello sfruttamento.

«Dawson City: Il tempo tra i ghiacci» traccia un percorso «circolare»: dagli albori della corsa all’oro, nella stessa epoca in cui nasceva il cinema, al momento in cui il cinema costruisce il mito della Gold Rush. Una vicenda emblematica dell’intera Storia americana.

Il fatto che i film delle origini fossero fatti con lo stesso materiale che si usa per produrre gli esplosivi è per me una metafora straordinaria: buona parte dell’economia statunitense si regge infatti sull’esportazione di armi e di film. La storia del nostro Paese ripropone di continuo lo sfruttamento delle risorse naturali di una regione finché non si esauriscono. Così i protagonisti della corsa all’oro sono arrivati nel Klondike, hanno costruito una città, gettato i loro rifiuti nel fiume per proseguire verso il prossimo posto da sfruttare. Su una scala più vasta la stessa cosa è successa con le grandi corporation: hanno aperto le miniere e quando l’oro è finito se ne sono andate, lasciando il paesaggio completamente devastato. Per millenni lo Yukon è stato un territorio fertile, un luogo di pesca per le comunità indigene: la corsa all’oro ha segnato la fine di questa tradizione. Ancor più che della storia americana, questa è una «sinossi» del capitalismo.

Come ha deciso di lavorare con la collezione del Dawson Film Fund?

Il ritrovamento delle bobine di film a Dawson è una vicenda che ha sempre colpito la mia immaginazione. E credo che in qualche modo la collezione sia stata danneggiata da questa storia meravigliosa: ci si accontenta di raccontare il ritrovamento senza andare oltre e vedere le immagini. L’origine del mio film è legata a molti ritrovamenti: oltre alle bobine ci sono i negativi su vetro delle fotografie di Eric Hegg (il fotografo che ha documentato la corsa all’oro, ndr) che una coppia ha scoperto nelle pareti della loro casa, e la polvere d’oro affiorata sotto il bar del Palace Grand – un cinema edificato durante la Gold Rush – quando è stato demolito. A Dawson la storia dei negativi di Eric Hegg aveva dei contorni leggendari: non era mai stata sostanziata con dei nomi, dei posti, delle date. Con molta fortuna siamo riusciti a rintracciare la donna, ormai novantenne, che li aveva scovati insieme al marito negli anni ’50. Ma non è un caso isolato: spesso i negativi su vetro sono stati conservati nelle pareti per proteggerli dal deterioramento. E all’epoca del ritrovamento la chiesa incoraggiava le persone a cercarli: era molto difficile infatti inviare il vetro fin laggiù e gli abitanti dello Yukon ne avevano bisogno per costruire delle serre. Lo stesso vale per l’oro sotto il Palace Grand: a metà del ‘900 ogni volta che veniva abbattuto un vecchio edificio si portava l’attrezzatura per raccogliere la polvere d’oro che in passato era filtrata nelle fessure dei pavimenti. Un altro ritrovamento incredibile è stato la fotografia del giovane Capo Isaac – della tribù cacciata dalle sue terre con l’inizio della corsa all’oro – che poi riappare, vent’anni dopo, ormai anziano, in dei filmati amatoriali conservati dalla collezione. Accostare le due immagini consente di vedere ciò che gli è stato fatto: è diventato il sindaco di un ghetto impoverito e un’ attrazione per i turisti appassionati alla storia della Gold Rush.

Il lavoro è uno degli elementi cruciali affrontati dal film: si parla di sfruttamento, delle lotte dei minatori…

I newsreel dell’epoca – che ho montato – informavano i lavoratori di ciò che stava accadendo nel resto del mondo. Parlavano di persone comuni, le stesse che compravano i biglietti per assistere allo spettacolo. Il genere di notizie che passavano per Dawson City riguardavano spesso le miniere, quelle di Rockefeller ad esempio, dove ci fu il massacro di Ludlow, o gli scioperi dell’Industrial Workers of the World. Anche la storia del campionato dei Black Sox nel 1919 racconta l’opposizione tra lavoratori e padroni: all’epoca i giocatori non avevano un sindacato e non potevano negoziare, erano sostanzialmente degli schiavi e le loro sorti dipendevano dai proprietari della squadra. Per questo emerge lo scandalo della «corruzione» dei giocatori che vendevano le partite nel giro delle scommesse: in questo modo potevano guadagnare l’equivalente del loro stipendio annuale. E infine c’è la vicenda delle stesse miniere di Dawson: col tempo i Guggenheim le hanno comprate tutte, installandoci macchinari sempre più grandi e potenti, per cui servivano sempre meno lavoratori e la città è collassata.

Nel film scopriamo anche come è iniziata la fortuna della famiglia Trump, in un bordello costruito da Fred Trump a Whitehorse, un’altra cittadina divenuta poi la capitale dello Yukon.

Mi sono trasferito a New York nel 1985, quindi Trump è stato parte della mia realtà quotidiana per molto tempo in qualità di clown da tabloid, di artista della truffa. Il mio primo impulso quando mi sono imbattuto nella storia del suo avo è stato di non inserirlo nel film, perché rappresenta un tipo di «celebrità» che non mi piace. All’epoca pensavo ancora che il nome di Trump sarebbe stato popolare per un po’ sull’onda della sua candidatura alle elezioni, per poi essere dimenticato dopo la sconfitta che gli avrebbe inflitto Hillary Clinton. Ma visto come sono andate le cose la sua storia ormai fa parte di quella della nazione, e quindi del film, dell’epopea della Gold Rush in cui sono nate le fortune della sua famiglia.

Sta lavorando a un nuovo progetto?

Si, l’estate scorsa c’è stato un altro ritrovamento di vecchie pellicole: un pescatore islandese, tirando su la trappola per aragoste, ci ha trovato la bobina di un film russo degli anni Sessanta.