E se la poesia altro non fosse che una occasione di vita, certo più profonda, certo mediata dalla scrittura elaborata, ma sempre dedita alla vita, alla sua priorità su tutto, piuttosto che secondaria gerarchia letteraria alla quale sacrificare ogni adeguatezza? Questo è il messaggio che, in versi originalissimi, ci invia Cetta Petrollo in una intensa silloge Giochiamo a contarci le dita con prefazione di Maurizio Cucchi (edizioni Zona contemporanea, pp.117, euro 15).

CETTA PETROLLO PAGLIARANI già nel memoriale Margutta 70 aveva ripercorso in modo rigoroso la sua convivenza con Elio e per una vita intera. Dopo tante prove autonome in poesia – la prima, dopo la partecipazione ai «laboratori» nel 1984 con Sonetti e stornelli con prefazione di Amelia Rosselli – torna a sorprenderci stavolta per la sua sapienza e insieme per la gentilezza della poetica che propone. Che traendo spunto da un suo verso appare come «il mondo divenuto solo una casa».

IN FORME DIVERSE, sorrette da una ferma felicità a consistere e a testimoniare dentro la «costellazione delle cose» varia dallo stile colloquiale che si vorrebbe ininterrotto con gli affetti vicini e scomparsi, alla filastrocche per bambini e favole, a lettere spedite ad un altrove dal quale si aspetta una risposta che tenga in vita, all’infinito, l’interlocutore, fino alla sezione A memoria che sceglie la modalità impeccabile del sonetto. Elio Pagliarani, il «novissimo», quello della Ragazza Carla e della Ballata di Rudi per intenderci, è presente ma solo come uno dei Lari delle antiche case romane: «Mi porto dietro il mio passato/ con qualche tarlo antico/ che ad ogni primavera si rinnova/ sottotraccia il profumo della cassa/ di quando noi eravamo./ Così fa la ginnastica il cassetto/ rivelando le pipe ancora calde/ (e cenere mai buttata)…».

PERCHÉ INVECE tutto si dipana attraverso un personalissimo sguardo appassionato e per una ricerca autonoma e indipendente dentro un conflitto lancinante quanto vitale. Per uni scontro aspro, sotteso da una parte tra ciò che è domestico: «Ho dentro mia madre/ quando guardo dalla finestra/ e mi fodero di cose antiche/ quando trovo il ritmo che mi fa gioire/ per la delizia parsimoniosa. / Io ho dentro mia madre…»; e dall’altra parte tutto quello che, come l’inesorabile tempo, non si riesce ad addomesticare: «passa mia falsità con sui corteo/ di falsa scienza e reti di parole/ di riti regolati e presunzione/ passa mia falsità senza coraggio…».
La sua non è inconsapevole allegrezza dunque, ma stagione guardinga, cosciente che la sua fissità e perseveranza nel mantenere ogni giorno il teatro di una normalità negata, di fronte all’«apertura delle dighe» possa implodere all’improvviso; e non è un caso che proprio ad una fissità pittorica si richiami in una composizione lungimirante: «Ti chiedi perché sei come in un quadro di Hopper/ fra una domenica e l’altra/ davanti a una candela raggrumata come in un quadro/ sullo sgabello col bicchiere di vino…».

DICE GIUSTAMENTE Maurizio Cucchi nella prefazione: «…un libro accogliente e frutto di una sensibilità sottile e acuta dove troviamo presenze di umani che si cercano e si abbracciano ‘come naufraghi’». Sono due infatti gli obiettivi che Cetta Petrollo raggiunge a pieno, in questi versi che possiamo definire come istantanee, fermo immagini del momento pur nella consapevolezza del limite della parola: il primo è restituire l’epifania dello sguardo, con la magia e lo scongiuro per il tempo presente, con cui comunicare ai nuovi corpi bambini, che pure in natura si riproduce: «Abbiamo avuto l’infanzia,/ o meglio tu l’avevi io la rifacevo/ è questo che accade sempre/ quando si ha un bambino?/ Accade, accade…».
Il secondo appuntamento non mancato, quasi senso generale di tutti i versi, è pensare e trasmettere un solo contenuto: che la misura della memoria racchiusa nella misura dei versi serva alla fine solo per dare sollievo: «…tela delle parole te a te rivelo/ ed il mistero di tua piana bellezza/ sondo con vaghi suoni a farne eco./ Chi dunque di noi due ha la destrezza/ del prodigio più grande? Tu spingi in mare/ aperto, io verso scoglio traggo con dolcezza».