Glass come vetro, superficie su cui le immagini si riflettono, intere o in frammenti, rimbalzano, si moltiplicano, si confondono, un puzzle mai uguale. E Glass il nuovo film di M.Night Shyamalan (il cui doppiaggio mette in crisi ogni certezza rispetto alla sala oggi) – che ammicca al soprannome di uno dei protagonisti – è come una di queste lastre lucenti colpita da una pietra che l’ha mandata in mille pezzi, caleidoscopio di sensi e di immaginari di ispirazione cubista che gioca col passato e col futuro ma soprattutto con la dolcezza – oggi quasi insostenibile – di un sogno del cinema. Da qualunque parte lo si guardi questo omaggio all’universo dei supereroi – passione che il regista nato a Pondicherey nel 1970 ha sin da bambino: «Collezionavo le edizioni pedagogiche con le mitologie religiose e le lotte tra le diverse divinità» ha raccontato parlando del film – non ha paura (e qui meno che mai), di rischiare la caduta libera, di esporre una fragilità (anch’essa inattuale) nelle superfici e nel profondo che sfida l’immagine (vincente) dei supereroi. O è forse una sfida con sé stesso, coi suoi universi di affermazioni e sconfitte, di fallimenti e rinascite?

TALENTO celebrato poi messo ai margini – nessun avrebbe investito più su di lui – e tornato al successo (grazie anche alla complicità del produttore Jason Blum) tanto che dopo Split può permettersi questo «epilogo» di specchi, telecamere di controllo, labirinti manicomiali: un teatro per uomini dotati di poteri straordinari senza l’enfasi degli effetti speciali. Lo hanno presentato come il «sequel» di Unbreakable (2000), e vi ritroviamo i due personaggi antagonisti, David Dunn (Bruce Willis), l’uomo dalla forza sovrumana unico sopravvissuto all’incidente del treno provocato dal genio del male Elijah Price (Samuel Jackson), il suo opposto, condannato da una malattia incurabile che ha reso le sue ossa più fragili del cristallo. «Glass»lo chiamano ancora nel manicomio criminale (un po’ Fuller di Shock Corridor un po’ Scorsese di Shutter Island, molto Carpenter) dove è chiuso da sedici anni, in apparenza neutralizzato da trattamenti più che invasivi,gli occhi semi-chiusi e un distacco catatonico dal mondo. A cui si aggiunge il Kevin Wendell Crumb (James McAvoy) di Split, con le sue 23 personalità, dall’eterno bambino di 9 anni alla severa sorvegliante fino alla Bestia signore supremo dell’Orda e essenza della forza.

E PIÙ CHE un sequel allora, che prevederebbe una «saga» Glass appare come una riflessione sul genere, che mostrando il laboratorio del cineasta dispiega – non senza i suoi twist, non senza umorismo – una epifania della sconfitta, dolorosa e quasi paradossale vista la materia, e totalmente eroica nei tempi del «corpo del capo» autoritario, tronfio e muscolare del trumpismo o degli altri epigoni innamorati di divise militari e sfoggio di potenza – ma solo coi deboli. Del resto: i supereroi primitivi in calzamaglia nelle fantasie dei ragazzini non erano proprio quelli che potevano vincere lo sbruffone di turno?

SIAMO a Filadelfia, David Dunn è diventato una specie di giustiziere protettore dei più deboli, si aggira nell’oscurità aiutato dal figlio Joseph (Spencer Treat Clarke cresciuto) abilissimo con l’informatica e i sistemi di controllo. Da giorni sta cercando tre ragazze rapite dal pericoloso serial killer, ovvero Kevin Wendell Crumb, che le uccide dopo averle torturate ferocemente. I due si sfiorano, basta un attimo a Dunn per vedere le adolescenti, riconoscere il maniaco, seguirlo, attaccarlo, combatterlo. La lotta finisce davanti alla polizia che li aspetta fuori per spedirli in quello stesso ospedale dove è già chiuso Mister Glass, e dove una gelida psicanalista specializzate nella sindrome di chi si crede un super eroe (Sarah Paulson) si è data il compito di provare quale sia la verità: ovvero che la loro è solo una patologia grave, che sono farneticazioni, che insomma come ripete col sorriso sempre incollato sulle labbra, quei poteri che pensano di avere esistono soltanto nella fantasia di una mente (la loro) gravemente malata e influenzata in modo perverso dai fumetti. Un’altra decostruzione? O lo scontro di due mondi, che poi sono due diversi universi fantastici? Ma la citazione – e l’autocitazione- sembra voler mettere alla prova ciascuno dei riferimenti nel presente scrutato con un occhio capace di guardare oltre le apparenze, o in modo diverso ingannando – il suo interlocutore come fa col suo strabismo esibito Elijah.

ANCHE Shyamalan ci fissa e interroga tra infiniti indizi e false piste, la nostra capacità (ancora) di credere, di immaginare che poi riguarda anche le immagini, quanto si è disposti a mettersi in gioco per credervi, quale è la libertà ancora possibile dall’una e dall’altra parte che rende super i suoi eroi più simili a fantasmi (Sesto senso) in quel parcheggio deserto finale (senza spoiler), nella dilatazione del tempo contro l’ipercinetismo tecnologico, in una assurdità «romantica» che è l’amore per la magia del cinema.