Può la storia delle epidemie aiutarci a comprendere la pandemia di coronavirus? Cosa abbiamo sbagliato in passato e cosa dobbiamo imparare a non sbagliare più? In che modo il Covid-19 ha cambiato il nostro rapporto con la morte? Ne parliamo con Frank Snowden, storico americano delle epidemie e della medicina, esperto di storia italiana moderna e professore all’Università di Yale, che in questo periodo vive in Italia.

 

Frank Snowden, Yale University

 

Circostanze di emergenza come questa pandemia hanno, in alcuni casi, trasformato la guerra al virus in una guerra alla democrazia. Le emergenze vengono sfruttate per ottenere un’estensione dei poteri e un controllo sull’economia. In casi estremi con pieni poteri che portano all’ascesa di regimi autoritari come in Ungheria. È già successo in passato? Le pandemie hanno finito col “legittimare” derive autoritarie?

Le pandemie hanno il potenziale di rafforzare l’autoritarismo. Quello che sta succedendo con Viktor Orbán in Ungheria ma anche in Polonia, sono due esempi molto chiari di come l’emergenza sia una legittimazione di tendenze autoritarie di estrema destra per distruggere il sistema democratico e istituire un governo nazionalista e pseudo populista. Quindi è un pericolo. Ma questo non è un processo inevitabile.

Se si guarda all’ultima grande pandemia, l’influenza spagnola del 1918, sono state prese misure come il divieto di assembramenti – una sorta di precursore dell’auto isolamento – niente manifestazioni o parate, e i cittadini dovevano essere monitorati dallo Stato. Eppure, a quel tempo, non credo che nessuno avrebbe detto che sarebbero state permanenti e il risultato dell’influenza spagnola non è una dittatura.

Nell’Europa dell’Est, per esempio, il colera negli anni Trenta del diciannovesimo secolo ha consentito l’imposizione di misure di repressione draconiane, quasi medioevali. E lì fu qualcosa di duraturo.

Quindi credo sia possibile per gli autoritarismi sfruttare il potenziale emergenziale creato dalle malattie pandemiche. Ma l’effetto può anche essere il contrario.

La fine della schiavitù nelle piantagioni ad Haiti, per esempio, fu il risultato della distruzione dell’armata di Napoleone a causa della febbre gialla. E quello fu liberatorio: la prima Repubblica nera libera, la prima grande ribellione schiavista della storia, in parte radicata nella differenza di immunità e mortalità tra gli europei e gli africani, le truppe di Napoleone, gli europei, non avevano l’immunità di gregge alla febbre gialla, mentre gli schiavi africani sì.

Quindi direi che anche la libertà può essere conseguenza dalla pandemia. Il futuro non è predeterminato. Quanto vigili e reattivi saranno i cittadini farà un’enorme, decisiva differenza.

Quindi affrontare una pandemia non implica necessariamente l’autoritarismo? 

Che le democrazie non siano adatte ad affrontare le pandemie è categoricamente falso. Direi anzi che le democrazie sono più adatte ad ottenere il sostegno popolare ed istituire razionali politiche sanitarie pubbliche perché permettono il libero flusso di informazioni, e la salute pubblica moderna dipende in realtà dalla libera informazione.

Spero che misure come quelle applicate in Corea del Sud rappresentino effettivamente un modello di ciò che una governance democratica – non sto cercando di promuovere la Corea del Sud, ma sto solo dicendo che è un governo eletto – può fare senza poteri autoritari di emergenza: praticare test diagnostici accurati, distanziamento sociale, quarantena e rintracciamento del contagio. Queste sono le componenti essenziali di ciò che deve essere fatto in questo momento.

Non abbiamo altre armi, non c’è nessun vaccino, nessuna cura. Non credo sia vera l’idea che abbiamo bisogno di un dittatore per affrontare la crisi.

In un’intervista al New Yorker lei ha detto “le epidemie sono una categoria di malattie che fanno da specchio agli esseri umani e mostrano chi siamo veramente”. E poi ha aggiunto che le epidemie riflettono il nostro rapporto con l’ambiente, sia quello che abbiamo costruito che l’ambiente naturale. Questo vale anche per la pandemia di coronavirus? Le epidemie sono lo specchio della vulnerabilità umana? 

Credo che questo sia estremamente vero per il coronavirus; questa è la prima grande epidemia della globalizzazione. E credo che tutte le società creino le proprie vulnerabilità.

Permettimi di fare un paragone con un’altra malattia che è stata la più temuta del suo secolo, il colera nel diciannovesimo secolo. Era una malattia dell’industrializzazione e quindi dell’urbanizzazione dilagante – cioè l’ambiente costruito in modo catastrofico perché masse di persone si riversavano nelle grandi città in tutto il mondo industriale, dove non esisteva alcuna preparazione sanitaria o abitativa.

In città come Napoli o Parigi c’erano baraccopoli – nove, dieci persone in una stanzetta – in cui si viveva senza alcun sistema igienico-sanitario, né fognature o acqua potabile. E quindi una malattia che si trasmetteva per via orale-fecale, adattata a quell’ambiente, ne traeva il massimo vantaggio.

Il tifo, e il colera asiatico, direi, sono malattie sintonizzate sulle condizioni di industrializzazione e rappresentano, in questo senso, uno degli specchi della globalizzazione.

Con il coronavirus, ci sono almeno tre dimensioni che mostrano come la Covid-19 sia lo specchio di ciò che siamo come civiltà.

La prima è che stiamo diventando quasi 8 miliardi di persone in tutto il mondo.

Poi abbiamo il mito per cui si può avere una crescita economica e uno sviluppo infinito anche se le risorse del pianeta sono limitate, il che è una contraddizione intrinseca. Eppure abbiamo costruito la nostra società su questo mito, pensando che le due cose si possano in qualche modo conciliare. Quindi c’è un problema.

Inoltre, questo trasforma il nostro rapporto con l’ambiente e in particolare con il mondo animale. Abbiamo dichiarato guerra all’ambiente e distruggiamo l’habitat degli animali – questa è l’era dello sradicamento e dell’estinzione delle specie.

Quello che succede è che gli esseri umani entrano in contatto con gli animali con una frequenza e in modi che non sono mai accaduti in passato. E possiamo ora indicare quali sono le malattie che lo dimostrano: l’influenza aviaria per definizione, così come la MERS e la SARS e l’Ebola. E ora abbiamo il coronavirus.

Direi che questo schema non è casuale. Vuol dire che viviamo in un’epoca di ripetuti spillover. E in particolare sembra che siamo molto vulnerabili a quei virus per i quali i pipistrelli sono un ospite naturale.

Un’altra caratteristica della globalizzazione è che ora abbiamo creato un mondo di grandi città, di megalopoli collegate da un rapido trasporto aereo, il che significa che uno spillover che accade, scelgo un posto a caso, a Giacarta al mattino…lo stesso virus sarebbe presente a Los Angeles e a Londra la sera.

Quindi direi che il coronavirus sta sfruttando canali di vulnerabilità che noi stessi abbiamo creato.

Direi anche che questa pandemia è la quintessenza dell’epidemia di una società globalizzata. Globalizzazione significa distruzione dell’ambiente, il mito di una crescita economica infinita, un’enorme crescita demografica, grandi città e trasporti aerei rapidi; è tutto collegato.

 

Cittadini americani in attesa di evacuazione all’aeroporto internazionale di Lagos, Nigeria, foto Ap /LaPresse

 

E la pandemia nei paesi in via di sviluppo? Cosa ci mostra lo specchio?  

Questa è una mia grande preoccupazione. Al direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è stato chiesto: “Cosa ti tiene sveglio la notte durante questa crisi?”. E lui ha risposto, “quello che potrebbe succedere se questo virus si facesse strada nelle nazioni con poche risorse”.

Sono preoccupato ora che, mentre parliamo, il virus si sta diffondendo in diversi paesi dell’Africa, America Latina ed Asia. Temo che possa causare sofferenze inimmaginabili in quelle zone.

Il distanziamento sociale e lavarsi le mani sono alla base della nostra risposta. Certamente qui in Italia è proprio questo che le persone sono chiamate a fare.

Ma cosa significa, per esempio, in una favela a Rio de Janeiro o in una township in Sudafrica dove ci sono tante persone che vivono in una stanza? In un condominio di case popolari, poi, il distanziamento sociale è una presa in giro. E dove non si dispone nemmeno di servizi igienici? Lavarsi le mani non significa nulla.

Così voglio delineare quella che penso sia un’altra vulnerabilità che la nostra società della globalizzazione riflette: la disuguaglianza globale. Anche in un paese ricco come gli Stati Uniti questa malattia può affliggere tutti, ma in modo preferenziale e sproporzionato colpirà i poveri, le persone più vulnerabili del paese.

Questa è la verità dell’era della globalizzazione: ciò che colpisce i più deboli tra noi colpisce tutti e ovunque. Quindi penso che questo sia quello che stiamo per vedere nello specchio. E non è un bel riflesso.

 

Un condominio di Rabat in Marocco, foto Ap /LaPresse

 

È chiaro che abbiamo fatto degli errori. Continueremo a farli come prima? 

In effetti la preoccupazione ora è che quando questo passerà, non faremo nulla, se non radicarci in una dimensione di amnesia.

La speranza è che, invece, ci renderemo conto che siamo profondamente vulnerabili, che è inevitabile che altre sfide microbiche come questa si ripresentino.

Ogni ambientalista può dire fin da ora che questo è inevitabile a causa dei rapporti che abbiamo creato con la natura: lo spillover si ripresenterà ancora e ancora. Donald Trump ha sollevato la domanda più critica e inquietante di questa epidemia: “Chi poteva saperlo?”. Io direi che tutti potevano saperlo.

Già nel 1997 con l’influenza aviaria gli epidemiologi hanno detto che la grande sfida per il mondo è la sfida dei virus polmonari. Siamo più vulnerabili e a questi dobbiamo prepararci. Siamo poi stati totalmente impreparati all’Ebola.

Anthony Fauci nel 2005 ha testimoniato al Congresso americano dicendo: “Sse si parla con qualcuno che vive nei Caraibi, si può dire a quella persona che la scienza del clima prevede inevitabilmente che gli uragani colpiranno i Caraibi e che è fondamentale essere preparati ad affrontarli. La scienza non può dire quando colpiranno o quanto saranno forti, ma stanno arrivando e non c’è via di scampo. Allo stesso modo, possiamo dire al mondo che sta arrivando una grande pandemia virale, in particolare una pandemia polmonare. Non posso dirvi quando o quanto sarà forte, se sarà peggio dell’influenza spagnola o più debole. Ma è inevitabile che ciò accada. E quindi dobbiamo prepararci o avremo una pandemia”.

Beh, non ci siamo preparati. Non solo negli Stati uniti ma anche in Italia e in altri paesi.

 

La guardia nazionale dell’Illinois (Usa) nelle operazioni di protezione civile il 30 marzo scorso, foto Ap

 

L’Italia non è esente da questo. Gli anni prima di questa pandemia sono stati caratterizzati da tagli alla ricerca scientifica e alle spese per il sistema sanitario. Per fortuna l’Italia ha un sistema sanitario e ospedaliero pubblico tra i migliori al mondo. Anche se il punto è che comunque mancavano una search capacity e attrezzature di protezione per gli operatori sanitari.

Ma gli Stati Uniti ne soffriranno ancora di più perché non hanno quello che ha l’Italia: un sistema sanitario a disposizione di tutti.

Uno dei modi essenziali per prepararsi al futuro è garantire che tutti sul pianeta abbiano accesso alle cure mediche gratuite, perché se qualcuno si ammala di un virus polmonare, questo si ripercuoterà su tutti nel mondo. E quindi, se qualcuno deve essere al sicuro, tutti devono essere coperti dall’assistenza sanitaria.

Nel suo libro “Epidemics and Society” lei parla del successo sardo nell’eradicazione della malaria nella prima metà del ‘900 per illustrare l’importanza dell’assistenza internazionale, che all’epoca coinvolse gli Stati Uniti. Di conseguenza, per sopravvivere alla sfida di un’epidemia, l’umanità deve adottare una prospettiva internazionalista? Lei cosa ne pensa?

Assolutamente sì. Penso che uno degli aspetti più preoccupanti di questa epidemia sia che il “muro di Trump” diventi la metafora dell’epoca in cui viviamo, la nostra fiducia nei muri, nei confini e nelle barriere nazionali per “proteggerci”. Questo sottrae risorse alle misure che dovrebbero in realtà essere prese e una cosa che sappiamo è che i microbi hanno zero rispetto per i confini nazionali e i confini politici.

Credo ci sia stata una qualche misura efficace nei travel ban messi in atto temporaneamente. La speranza era che i paesi che avevano un divieto di viaggio in vigore guadagnassero qualche settimana di tempo per prepararsi. Ora, molti paesi hanno sprecato quel tempo, hanno messo in atto i divieti e poi non hanno fatto nulla.

Il mio paese, gli Stati Uniti, è l’esempio perfetto di come si è sprecato tutto quel tempo…L’Unione Europea non è stata in grado di sviluppare e adottare piani di preparazione che potessero mettere in atto una unica risposta continentale alla malattia.

E quindi ogni paese dell’Unione ha adottato misure senza alcun coordinamento. E l’opinione pubblica è rimasta molto confusa non sapendo quale fosse l’approccio migliore.

Questo è un ambiente in cui fioriscono miti, paranoie e teorie del complotto. Un’epidemia di disinformazione ha alimentato la pandemia biologica e l’ha aiutata a proliferare.

Durante la terza pandemia di peste in Cina tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo serpeggiava una tendenza al razzismo e la convinzione che l’epidemia non avrebbe oltrepassato i confini cinesi, l’illusione dell’“immunità del bianco”. Sembra che questo elemento fosse presente anche all’inizio dell’epidemia di coronavirus in Cina, quando il virus era ancora limitato al territorio cinese. Pensa che questo possa essere uno dei motivi che ha portato l’Occidente a sottovalutare il rischio legato a questa epidemia? Una sorta di fallacia psicologica, l’illusione che l’epidemia di coronavirus non si sarebbe diffusa al di fuori della Cina, che non avrebbe colpito l’Occidente?

Credo assolutamente che sia vero. Hai menzionato la terza pandemia di peste e tra l’altro il razzismo non era solo limitato alla Cina. È andato avanti mentre l’epidemia si diffondeva. L’abbiamo visto in India e anche in alcuni luoghi del mondo industriale come San Francisco, dove la terza pandemia di peste all’inizio del ventesimo secolo ha visto dilagare la xenofobia; era la “malattia di Chinatown”. E questo oggi dove ci porta? C’è la riluttanza di tanti leader politici a imparare le lezioni del passato.

Mi ha stupito il fatto che il Partito Repubblicano ha insistito su questo virus come il “virus cinese”… che si appella alla xenofobia come un modo per affrontare questa crisi. E credo che questo venga fatto consapevolmente… è una tentazione perenne, che ha fatto parte della storia di molte epidemie: le autorità hanno spesso nascosto la presenza di malattie perché possono rendere più problematico governare. Possono creare grandi difficoltà nell’economia e si vede che anche all’inizio di questa pandemia il presidente Trump aveva la tendenza a dire: “Oh, questa non è altro che una comune influenza”. Ha risposto in modo sbagliato. La salute pubblica dipende dalla verità.

 

Briefing di Trump alla Casa bianca sull'epidemia, foto Ap /LaPresse
Briefing di Trump alla Casa bianca sull’epidemia, foto Ap /LaPresse

 

Quale sarebbe stata la risposta giusta?

Non ho un piano di preparazione ufficiale, ma ho alcuni principi che ritengo essenziali e che sono alla base della salute pubblica moderna. Non sono miei ma della comunità scientifica internazionale.

La salute pubblica come disciplina scientifica dipende dalla scienza, che dipende dalla verità e dal libero scambio di informazioni. Vale a dire che nessuna politica che sia efficace e scientifica può essere adottata dove non c’è un’informazione adeguata e dove le persone non vengono considerate come parte di questa risposta.

E così sappiamo che mentire al pubblico è distruttivo per le politiche di salute pubblica. E credo che la scienza medica sia una parte essenziale della nostra protezione contro questa malattia.

Non posso dire tutto quello che Donald Trump avrebbe dovuto fare, ma posso dirti che quando ha mentito al pubblico stava facendo un passo profondamente in contrasto con i principi di difesa scientifica del paese e del mondo contro questa pandemia.

Credo che nessuno vorrebbe studiare come ho fatto io per 40 anni la storia delle pandemie, se l’unica cosa che si può dire alla fine di quel lavoro è che si tratta solo di tragedia e distruzione, che non c’è speranza. Credo che a questo punto sarei già impazzito.

Penso che le epidemie, come ho detto, sono uno specchio dell’uomo, ma non sono solo il lato negativo della natura umana, sono anche il lato positivo.

E possiamo ritrovare questo aspetto nella salute pubblica, possiamo ritrovarlo nel sacrificio dei medici e degli operatori sanitari e dei lavoratori dei servizi di prima necessità che ci permettono di sopravvivere a questa sfida.

C’è molto per cui essere grati. La salute pubblica si è evoluta dopo la peste bubbonica. Le misure ideate a Firenze e Venezia durante il Rinascimento sono state l’inizio della sanità pubblica. Stiamo ancora facendo alcune di quelle stesse cose.

In certi casi, come per esempio il vaiolo, una volta contratta la malattia infettiva, se si sopravvive, il sistema diventa immune. Sembra che con Covid-19, non ci sia ancora una certezza scientifica in questo senso. Se sopravvivere alla malattia non desse un’immunità naturale, potrebbe essere anche più complicato sviluppare un vaccino?

Sì, se si è suscettibili dopo la guarigione dalla malattia deve ancora essere dimostrato e studiato. Se fosse vero, avrebbe profonde implicazioni. Una delle caratteristiche che hanno reso più facile sviluppare un vaccino contro il vaiolo era che ciò che si doveva fare era incoraggiare l’organismo a fare qualcosa che la natura aveva già fatto, cioè creare una risposta immunitaria che già esisteva.

Un’altra caratteristica dell’eradicazione del vaiolo era che non c’era nessun animale ospite. E così, se si fosse interrotta la trasmissione della malattia, si poteva essere certi che non sarebbe ritornata per effetto di uno spillover.

Ora, per il coronavirus è molto diverso. Ma c’è anche un’altra caratteristica e questo ci riporta a indagare sul sistema immunitario dei pipistrelli.

C’è un aspetto negativo e uno positivo.

Il positivo è che i pipistrelli vivono molto felicemente con tantissimi coronavirus che non abbiamo ancora classificato, sono completamente sconosciuti, e quindi se si potesse scoprire il segreto del loro sistema immunitario, ciò potrebbe avere implicazioni potenzialmente profonde per lo sviluppo dell’immunità umana a quegli stessi virus.

Il negativo, però, è che ci sono tutti questi coronavirus e ne abbiamo incontrati solo pochi e nessuno ha la minima idea di quello che verrà. E questa è un’altra caratteristica che è preoccupante per uno spillover zoonotico, che è come tutto è iniziato.

Un’altra conseguenza di questa pandemia è l’impatto sull’economia. C’è un modo per proteggere l’economia? Oppure è una conseguenza inevitabile che questa soffra quando le pandemie raggiungono il punto di crisi?

Non ho un modello di come dovrebbe essere un’economia post coronavirus, ma ho alcune premesse su cui mi sembra che un’economia di questo tipo dovrebbe basarsi.

La prima è il riconoscimento che questa pandemia è un game changer, che il mondo non sarà più lo stesso dopo questo evento perché è già chiaro che le sue conseguenze economiche sono molto più profonde di quanto chiunque si aspettasse.

Molti degli spazi di lavoro o dei posti di lavoro che esistevano non torneranno come prima e questo significa disoccupazione su larga scala che dovrà essere affrontata, e significa anche che l’economia non può semplicemente tornare al business as usual. Einstein ha detto che uno dei segni della stupidità è la tendenza a continuare a fare la stessa cosa e a sperare in un risultato migliore.

Dobbiamo mettere da parte il mito di un profitto costante e a breve termine, la visione frenetica e permanente della crescita che non è sostenibile.

Le malattie non affliggono le società in modo caotico, sono eventi ordinati – lo scrive nel suo libro. Quindi, poiché sono eventi ordinati, possiamo usare questo aspetto a nostro vantaggio?

Le malattie non colpiscono le società in modo casuale, ma coinvolgono delle contingenze. Non voglio dire che sono totalmente strutturate, ma seguono una logica intrinseca.

Il setting è molto importante. Quindi, se ho ragione nel dire che le malattie sfruttano questi canali o percorsi stabiliti, visibilmente evidenti, mentre si diffondono nel mondo – questo ha un lato positivo.

Perché se accettiamo il fatto che siamo noi stessi i responsabili, ci guardiamo allo specchio e riconosciamo che siamo stati noi stessi a creare quei percorsi, quelle vulnerabilità, e a costruirle nelle nostre società, significa anche che sempre noi stessi possiamo cambiarle e possiamo alterare quel rapporto con il regno animale. Possiamo fare qualcosa al riguardo e questo proteggerà il pianeta e anche la nostra salute.

Alcuni colleghi sostengono che se potessimo cambiare il nostro rapporto con il regno animale, questo avrebbe un impatto duraturo e sostenibile sulla nostra vulnerabilità alle malattie infettive. C’è una componente ambientale molto importante nella soluzione al nostro problema.

La mia prossima domanda è su un piano molto diverso. Era vero con la peste e purtroppo rimane vero per la Covid-19, che le persone molto spesso muoiono da sole, senza funerali adeguati e a volte senza sepoltura. Come hanno influito le epidemie sul nostro rapporto con la morte?

È una questione filosofica, morale, antropologica e devo dire che potrebbe essere un progetto di ricerca a sé stante che ritengo enormemente interessante e importante. Vorrei poter rispondere alla tua domanda ma so che sto per deluderti. Tutto quello che posso fare è rafforzare la domanda dicendo che è vero che questa è una delle caratteristiche della peste e che la gente si preoccupava enormemente della propria mortalità. E in particolare, questo ha sollevato la questione della morte improvvisa.

Questo significa affrontare domande spirituali: se sei religioso, qual è il tuo rapporto con un Dio che è onnisciente e onnipotente eppure permetterebbe il massacro dei suoi figli? Credo che questo ponesse al centro la questione della fede e del dubbio sulla fede. Nei dipinti della peste, nell’iconografia, c’è il cranio e le ossa incrociate, la realtà della nostra esistenza è in realtà la morte, o la clessidra con le sabbie che si esauriscono, cioè la nostra morte.

 

Bare in fila a Seriate (Bergamo) e spazi numerati per le successive il 26 marzo 2020, foto Ap /LaPresse
Bare in fila a Seriate (Bergamo) e spazi numerati per le successive il 26 marzo 2020, foto Ap /LaPresse

 

Penso che questa domanda possa avere anche un aspetto sociale. Questa epidemia ha portato il concetto di morte nelle nostre vite in un modo in cui prima non era presente. Quando dico “le nostre vite”, ovviamente parlo dell’Occidente. Le nostre società, rispetto ai decenni precedenti, sono entrate sempre meno in contatto con la mortalità e la morte. Naturalmente questo non è assolutamente vero per molte regioni del mondo che oggi sono afflitte da guerre, conflitti, carestie e catastrofi climatiche. In un certo senso invece le nostre “società di conforto” ci hanno allontanato dalla morte. Quindi credo che una parte del motivo per cui ho posto questa domanda sia perché in Italia ora si parla molto di morte in un modo a cui non siamo abituati.

Sono stato molto rattristato dalla scomparsa del grande storico della morte, il francese Philippe Ariès, che ha scritto proprio su questi temi.

Ricordo un suo saggio che credo si chiamasse “Pornografia della morte”. La sua riflessione era di fare della pornografia una sorta di metafora, perché quando la morale vittoriana ha soppresso la sessualità in modo che non potesse trovare, diciamo, normali sfoghi salutari, non sarebbe sparita, ma esplosa in modi pornografici malsani.

Egli ha sostenuto che se si prende questo come modello, lo stesso vale per la mortalità e la morte e che ciò che abbiamo fatto nel mondo moderno è sopprimere la morte in modo da non affrontarla mai, come i vittoriani non hanno mai affrontato la loro sessualità.

E il risultato è che non sappiamo come elaborare il lutto perché la morte avviene all’interno di qualche istituzione e l’istituzione la riordina e se ne prende cura; è l’industria della morte.

La morte non è più personale. E se c’è una “professione della morte” che la riordina, non ci confrontiamo direttamente con la sua realtà e con il suo significato. Credo profondamente che Ariès abbia ragione. Ma non posso sostituire Ariès. E vorrei avere una risposta migliore.

So che è impossibile fare una vera e propria previsione di quanto tempo durerà la pandemia, ma mi chiedo se la storia può aiutarci in questo senso, se possiamo avere un’idea in termini di tempo e di cosa aspettarci nei prossimi mesi.

Non posso fare una previsione precisa. Questo è un punto cruciale da tenere presente perché si tratta di una nuova malattia che è nota all’uomo solo da dicembre.

Di conseguenza, nessuno ne sa ancora molto, e uno dei suoi misteri è ancora la durata del suo assedio su una comunità. Chiaramente non è come l’influenza spagnola che passava sulle comunità nel giro di poche settimane; e all’altro estremo è improbabile che rimanga all’interno di un territorio per anni come la peste bubbonica a volte ha fatto.

Per questo motivo il futuro è molto complesso. Non è chiaro, ad esempio, se Covid-19 diventerà una malattia endemica che ci accompagnerà per molto tempo; se ci sarà una ricaduta una volta che le comunità usciranno dall’isolamento e torneranno al lavoro e ad una vita più normale, e se coloro che sono stati infettati avranno l’immunità.

Immagino che il pericolo di una ricaduta impedirà alle autorità di permettere alla vita di tornare a una qualche versione “normale” per mesi.

Sospetto che il ritmo del cambiamento sarà cauto, poiché sarà necessario vedere se a un tale progressivo allentamento delle regole, seguirà una nuova ondata della malattia.

Credo che il ritorno alla “normalità” sarà quindi lento e graduale, e che alcuni cambiamenti saranno probabilmente duraturi, almeno fino a quando non ci sarà un vaccino efficace, che sarebbe una svolta.

Questa non è una previsione ma un’ipotesi. Il punto principale è che penso che tutti debbano essere consapevoli che questa pandemia è una questione molto seria e che la nostra guarigione non avverrà all’improvviso, tutto in una volta, e nemmeno molto presto. È anche realistico immaginare che alcuni dei cambiamenti nella nostra vita dureranno più a lungo.