Mentre si chiude il 2019 – con le sue celebrazioni per i duecento anni dell’Infinito – il gran laboratorio degli studi leopardiani è sempre operoso. Il decano degli studiosi di Leopardi, Luigi Blasucci, ha pubblicato solo l’anno scorso un libro intitolato Commentare Leopardi. Con tre applicazioni (Edizioni della Normale, 2018). Era, quel libro, il miglior viatico alla comparsa, adesso, della prima parte di una fatica promessa molti anni fa a Gianfranco Contini, l’antico committente: Canti volume primo (Fondazione Pietro Bembo – Ugo Guanda Editore, pp. 470, € 40,00), che raccoglie e annota le prime diciotto liriche del libro leopardiano, interrompendosi con la magnifica canzone Alla sua donna. Il Blasucci commentatore sfrutta a fondo, intanto, la divisione – invalsa a partire proprio dal commento continiano alle Rime dantesche (1939) – fra cappello introduttivo al singolo testo, cui è affidata l’«interpretazione», e le note a piè di pagina, con il loro compito anzitutto «filologico-datistico». Si potrebbe, da qui, cominciare a inseguire concretamente tali parametri, per esempio in un testo-emblema come lo stesso Infinito. Un verso come il secondo, «e questa siepe, che da tanta parte», che innesca l’attività immaginativa dell’io, è «smontato» nei suoi due sintagmi principali. Di ciascuno si valorizzano i compiti grammaticali all’interno del testo, allegando anche due passaggi dello Zibaldone, in entrambi i casi strettamente legati agli elementi spiegati in nota (il primo sull’«anima» che «immagina» ciò che proprio una «siepe» nasconde alla vista, il secondo a proposito della vaghezza dell’aggettivo «tanto»). È il cappello a incaricarsi invece, nel frattempo, di conclusioni di altra portata, rintracciando proprio nell’Infinito gli indizi della «funzione di avanscoperta che assume spesso la poesia» di Leopardi, insomma la sua priorità nei confronti della «ragione ragionante», attiva nella prosa zibaldoniana.
In principio, per Blasucci, è comunque la lettera del testo. Alla sua «realtà verbale» si guarderà tentando di spiegare Leopardi – il più possibile – attraverso lo stesso Leopardi: appoggiandosi cioè agli appunti zibaldoniani, oppure a loci fra loro imparentati (se si pesca ancora dall’Infinito, ecco che dei «sovrumani / silenzi» si ascolta l’eco fino alla Vita solitaria, o alle più lontane canzoni sepolcrali e alla Palinodia al marchese Gino Capponi, confermando dunque il ruolo seminale dell’idillio del ’19, che Blasucci rivendicava già in un suo saggio del 1985 uscito per il Mulino e diventato un classico della critica leopardiana, cioè Leopardi e i segnali dell’infinito). O, ancora, si lavora facendo tesoro delle Annotazioni leopardiane, che accompagnano le dieci Canzoni già nell’edizione Nobili del 1824, e che finiscono più volte sotto il microscopio dell’interprete.
Siamo, in generale, di fronte a una pratica di asciutta concretezza, che si lascia ammirare specialmente dove la complessità lessicale e sintattica della lirica leopardiana raggiunge il suo culmine, cioè nelle canzoni. Basterebbe riaprire il commento alla canzone Alla Primavera, e considerare quante volte le note siano anzitutto lo strumento eletto per disbrogliare il filo semantico e sintattico: si badi alle chiarificazioni puntuali dei latinismi, che qui fanno massa (penetrati, arguto, conscie, ecc.); ai termini spiegati tramite il ricorso alle varianti d’autore non salite a testo, ma preziose nel suggerire il senso di un dato elemento o sintagma (ispidi, al v. 50, riferito a tronchi, è «chiosabile colle varianti rudi, scabri, duri»); allo scioglimento di certe asperità sintattiche (la segnalazione delle reggenze verbo-complemento è una delle costanti, qui come altrove). La voce del commentatore, al contrario, si fa sentire solo quando serve, e con un tratto fondamentale: la discrezione. Non senza ricordare le altre voci che hanno fatto la storia dell’esegesi leopardiana: uno dei contrassegni fondamentali del commento di Blasucci è la densa rete di riferimenti ai commentatori che si sono succeduti negli anni, dai pionieri – Straccali e Antognoni – a nomi più recenti quali il tandem Gavazzeni-Lombardi, autori di un commento uscito per Rizzoli nel 1998. Più sorvegliato – specie se si tiene come pietra di paragone proprio il commento Gavazzeni-Lombardi – il ricorso all’intertestualità. Si può anzi dire che la lirica leopardiana sia qui osservata anzitutto nel suo splendore verbale e per così dire oggettuale, e meno in quanto sedimento di memoria poetica (ciò vale anche a proposito di una vena decisiva per la miniera leopardiana, quella della poesia greca e latina).
Quale che sia il punto di osservazione privilegiato, è in ogni caso piuttosto chiaro che questo commento è il precipitato di un protratto corpo a corpo con i testi poetici leopardiani, un esercizio di abnegazione disceso da una ininterrotta sfida ermeneutica, durata alcuni decenni (il che suggerisce, a guardar bene, che la pratica del commento non è mai separabile da una avventura interpretativa a giro più largo). Solo due esempi, nei quali la struttura del commento rispecchia le abitudini critiche dello studioso. Intanto, la serie delle note a piè di pagina è sempre anticipata da un paragrafo in cui si chiosa programmaticamente il titolo di ciascun componimento (il che è sostanzialmente un unicum nella storia dei commenti leopardiani). E non si può, allora, non ricordarsi che Blasucci è anche l’autore di un saggio intitolato appunto, molto significativamente, I titoli dei «Canti» e altri studi leopardiani (Morano, 1989). In secondo luogo, sarà bene notare che il commentatore ha deciso di fare largo uso di correzioni e varianti – lo si è già accennato – spesso «accolte nelle note» oppure, «quando in serie più lunghe, (…) riprodotte in appendice ai singoli testi».
Anche in questo caso, il commentatore è in certo senso in credito con il Blasucci critico, il quale alle dinamiche di elaborazione progressiva del testo è da sempre molto sensibile (vedi almeno un saggio come Livelli e correzioni dell’«Angelo Mai», del 1985). E anche nel preciso e insieme agile saggio introduttivo, Storia di un libro, si riconoscono alcune attenzioni costanti del Blasucci lettore. Si pensi, soprattutto, alla minuta descrizione dell’«oculato montaggio» cui obbedisce la struttura del primo vero grande libro lirico della modernità italiana. E si intravede già qui ciò che sarà forse confermato dalla seconda parte del commento, cioè l’idea che sia sostanzialmente La ginestra a costituire la «vera» chiusa della raccolta, con la sua «collocazione finale (…) strategicamente calcolata» (ma qual è allora il ruolo di una piccola perla come Imitazione, che il Pier Vincenzo Mengaldo antologista leopardiano annovera – unico fra i successivi alla Ginestra nell’indice – «fra i Canti più belli», e che soprattutto Gilberto Lonardi ha letto suggestivamente come un luogo-chiave, dove sono nascosti gli «ultimi segreti» di Leopardi?).
Di notevole interesse sono poi alcuni luoghi poetici tutto sommato meno centrali nel percorso leopardiano di Blasucci, per esempio un testo il cui commento – l’unico insieme a quello dedicato a Consalvo – non era stato anticipato altrove, ovvero il Passero solitario. Oltre a districare la vexata quaestio della datazione del testo e della sua dislocazione nella raccolta – ad anticipare la sequenza degli idilli – Blasucci punta subito sulla struttura metrica del canto: qui e altrove è chiara l’intenzione di usare il più possibile il fatto metrico come dato interpretativo, e non come un mero «contenitore» del tema, sulla scia di uno dei suoi maestri, il Mario Fubini di Metrica e poesia.
Squadernata fra i suoi numerosi e fondamentali studi e, ora, questa prima parte del commento ai Canti, il rapporto di Blasucci con la scrittura – e con l’esperienza – di Leopardi impressiona per continuità, intensità, forse soprattutto per la confidenza fra l’interprete e il suo oggetto d’elezione. Per lui non sembrano esserci zone di ambigua opacità: si potrebbe forse dire – con un verbo sobrio, ma da intendere in senso ‘forte’ – che semplicemente conosce Leopardi. E suona come un’implicita difesa della specificità ineludibile del linguaggio poetico il fatto che a una tale familiarità con questo grande, Blasucci arrivi – anzitutto e ancora – per via di analisi dello stile. Giù il cappello allora, già adesso, in attesa di festeggiare il secondo e conclusivo volume.