Cinema, teatro e opera convivono felicemente, da sempre, nella creatività di Mario Martone. Si è detto molte volte, citando l’unico termine di paragone nella storia recente del nostro spettacolo, ovvero Luchino Visconti. Ma rispetto ad altri colleghi che pure hanno cominciato a usare l’intreccio dei linguaggi, da Pippo Delbono a Emma Dante, il regista napoletano ha sicuramente una storia più ricca e stratificata, oltre ad altri squarci che cominciano ad affacciarsi con insistenza e ricchezza di senso nelle sue opere.

Ad esempio la letteratura, o le arti visive, e la loro storia e stratificazione, come appare anche nella ultima sua opera presentata ed applaudita ieri a Venezia, Il giovane favoloso. Che fin dal titolo cita la grandezza di Leopardi attraverso la definizione e la percezione di un’altra grande scrittrice, Anna Maria Ortese (e a ripensarci una signora della scrittura è stato spesso input iniziale per i suoi film, da Fabrizia Ramondino per il Matematico, a Elena Ferrante per L’amore molesto, ad Anna Banti per Noi credevamo).

Qui la letteratura è il corpo stesso del film, attraverso il corpo che Elio Germano dà mirabilmente a Giacomo Leopardi, uno dei massimi scrittori dell’Italia moderna, un corpo che l’attore «sviluppa» e trasforma dall’infanzia a Recanati fino alla fine, davanti alle ginestre sul Vesuvio. L’attore riesce ad attraversare, quasi senza farcene accorgere, gli stadi successivi della malattia che afflisse sempre più duramente il poeta, senza nasconderli ma senza mai trasformarsi in un elephant man.

Gli attori, e il teatro da cui provengono, sono una parte fondamentale non solo della poetica del regista, ma del risultato finale del film: sembra che ogni scena possa isolarsi in un brano teatrale. E non certo in senso limitativo, ma perché tale è la precisione, la cura di ogni particolare, e il potere evocativo che da loro emana, che sembra che ogni attimo del film abbia avuto prove accurate, senza nessun «buona la prima». Dando modo ad ogni attore di dare rara intensità ad un ruolo, o anche solo a un cammeo: dalla meravigliosa Paolina sorella, Isabella Ragonese, alla strepitosa Adelaide Antici Leopardi di Raffaella Giordano: un corpo di grande danzatrice rattrappito in una smorfia bigotta e crudele che nessuno vorrebbe avere per madre. O all’irresistibile precettore di casa Leopardi, un Sandro Lombardi coinvolto e divertito lui per primo. E Paolo Graziosi il conte-zio, e via così.

Del resto è vero che a Leopardi, alle sue parole e al suo sentimento Martone si era dedicato da qualche anno, proprio in palcoscenico, riuscendo nell’opera improba di trasformare in spettacolo le Operette morali. Nel film, in ruoli tutti diversi, compare gran parte degli interpreti di quella messinscena, assieme a moltissimi altri attori che dal teatro provengono, anche se non «martoniani» in senso stretto: da Massimo Popolizio (fantastico conte-padre Monaldo, strappato alla iconografia odiosa di semplice erudito reazionario, ma ricco di una complessa e combattuta affezione per i figli), a Michele Riondino, l’amico Ranieri che con sobrietà (per altro intensa) riesce a far trasparire uno dei lati davvero segreti, che nessuna scuola ci ha insegnato, della sessualità di Leopardi, per la quale le donne dovevano restare irraggiungibili, fossero giovani recanatesi o fiorentine mondane come Fanny Targioni Tozzetti. Soggetto poetico ma non realmente erotico.

Senza «scandali» né pruriti, il film segue il proprio protagonista e oggetto di affezione scoprendone molti lati normalmente «censurati» dai professori. Da quello politico a quello dell’innovazione letteraria radicale, alle distanze continuamente prese dall’ambiente umano circostante, allo humour con cui un intellettuale come Leopardi poteva anche schermare la propria sterminata curiosità. La stessa che l’amico caloroso Pietro Giordani (un vibrante Valerio Binasco), gli suscita facendogli toccare con mano le sculture della santa Casa di Loreto.

L’occhio artistico di Martone permea tutta la sceneggiatura (scritta non a caso con Ippolita Di Majo), sono bellissime le riprese di quella Recanati filtrate dalla nebbia che vi cosparge la fotografia di Renato Berta, ma sono solo l’inizio di una discesa agli inferi, che scala in realtà le vette, della poesia come della vita.

E il cui culmine è proprio Napoli, le sue viscere piene di ombre, di voci e rumori, di paure e di piaceri, in cui la «teatralità» della regia può scatenarsi assieme a tutti gli attori che ne sono corpo e parte. Di fronte al pensiero sempre più alto del poeta, Napoli scopre la sua carnalità rituale, di cui è officiante protagonista, in abito talare, Enzo Moscato. Processioni e bordelli, pasticcini e voragini, dalle quali echeggiano antichi inni sacri di culto campano, Maria della Civita, noi siamo di partenza

Fino a quel momento la bella colonna sonora contemporanea di Sascha Ring si era alternata solo con Rossini (a parte una breve citazione iniziale mozartiana): Rossini contemporaneo e quasi conterraneo di Leopardi, anche lui genio precoce, come lui innovatore di forme artistiche e di linguaggi. Martone fa assistere il poeta a un’opera oggi poco rappresentata, e fa tenerezza vedere un frammento della Matilde di Shabran che lo stesso regista ha messo in scena al festival rossiniano di Pesaro. È un universo sorprendente che prende forma, e che può aprire ad ogni spettatore nuovi percorsi di suggestione, leopardiani e non solo.