Scorgere la posizione di uno scultore italiano attivo nei decenni mediani del Novecento entro il sistema figurativo del  suo tempo non è impresa semplice. L’amatore fatica a muoversi fra quell’accidentato susseguirsi di abitudini stilistiche; l’addetto ai lavori è incalzato dalla molteplicità di piani che un metodo squisitamente relazionale gli impone. S’affacciano, il più delle volte, complicazioni legate all’accessibilità delle opere e delle informazioni archivistiche, soprattutto nella prospettiva di un’idea organica di catalogo generale, e intervengono, a cascata, quesiti circa le fonti in gioco, l’attenzione della critica e del collezionismo, le modalità espositive e l’autorappresentazione della coscienza storica d’artista nelle dichiarazioni di poetica. Le difficoltà aumentano e il quadro dei valori si fa tanto più chiaroscurato, poi, quando lo scultore sembra trovarsi a suo agio, e crescere, in ambienti carichi di forti suggestioni letterarie, ideologiche e culturali, o su terreni solitamente battuti più dal mestiere della pittura che dalla pratica delle arti plastiche. È il caso di Leoncillo Leonardi (Spoleto, 18 novembre 1915 – Roma, 3 settembre 1968), sul quale sono tornati a interrogarsi gli autori dei saggi del volume Leoncillo Natura ed espressione, a cura di Anna Leonardi e Stefania Petrillo (Electa, pp. 256, 92 ill., € 26,00).
Il libro nasce dal convegno spoletino promosso dall’Università degli Studi di Perugia nel 2015 e ovvia alla mancata pubblicazione degli atti arricchendo il canovaccio originario di interventi ulteriori, per un totale di venticinque titoli fra saggi scientifici e testimonianze di compagni di strada dello scultore. Per ammissione delle curatrici, la raccolta vuole inserirsi in quel filone di studi su Leoncillo incoraggiato dal centenario della nascita del maestro. Fra le miscellanee e le mostre curate dopo il 2015 (fra cui, attualmente a Firenze, Museo Novecento, Leoncillo. L’antico, fino all’1 maggio), brilla la ri-edizione a firma di Marco Tonelli (2018) del Piccolo diario, la riscrittura, qui studiata da Luca Pietro Nicoletti, allestita dallo stesso Leoncillo e così intitolata dal fratello maggiore Lionello, di alcune riflessioni redatte fra il 1957 e il 1964: in un lasso di tempo durante il quale, cioè, l’esplosione informale non spense mai nello scultore il ricordo delle passate stagioni stilistiche, da quella romano-espressionista sino alla neocubista. Per quanto si fosse trattato, (specie) per i tempi pseudo-picassiani, «dei migliori (anni) buttati dalla finestra», quindi di una «crisi» che era necessario affrontare, l’opera tutta di Leoncillo, così come fotografata dal Piccolo diario, testimonia l’intima coerenza della fantasia del maestro lungo trent’anni di scultura, nell’amore forsennato per la ‘materia’ e nell’ininterrotto legame fra ‘vita’ e ‘arte’: «La creta è come carne mia, un processo di identificazione assoluto, le cui premesse espressive le so ad una ad una, come la scelta di una superficie screpolata accanto ad una lucida sono mie coesistenze di ogni giorno».
Della costanza di Leoncillo il volume Electa parla già per bocca del sottotitolo, direttamente disceso dalle pagine di uno degli storici più prossimi all’artista, Francesco Arcangeli. Intorno al rapporto fra scultore e critico si può ora leggere il saggio di Bruno Toscano, col suo sguardo assoluto, dall’alto, sul corpo a corpo, così come documentato dalla «strada comune» ai due, tra forma e materia, astratto e concreto, e sulla essenzialità della memoria storica del ‘luogo’ nell’atto creativo. A voler uscire dal tracciato contemporaneista dello storico dell’arte felsineo, poi, si può abbozzare un ritratto di Leoncillo sulla scorta delle parole da Arcangeli dedicate agli antichi campioni di Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana nell’introduzione al catalogo dell’omonima mostra del 1970: sono artisti – Amico Aspertini, Ludovico Carracci, Giuseppe Maria Crespi e, aggiungeremmo noi, Leoncillo Leonardi – che «attingono la loro forza da una radice più largamente umana rispetto alla cultura che li circonda»; «parlano di cose che coinvolgono tutti» ed «esprimono la contingenza del vivere, che ci rende insicuri e umani, inquieti ed appassionati»; sono «esistenziali», «istintivi, patetici, naturali, espressivi, “romantici”».
Si tratta di una lettura forse incoraggiata dal ricordo della «persona umana, ben viva, punto umanistica» del Leoncillo di Roberto Longhi – arrestatasi, sarà bene ricordarlo, sul 1954: immagine di una scultura d’equilibrio fra volontà dell’artista e tenacia della materia, che andrebbe sottolineata quando si sfogliano le pagine sull’argomento qui offerte da Lorenzo Fiorucci. L’‘umanesimo’ di Leoncillo, che all’occhio longhiano rammentava la «Grecia cristiana e patetica» di Luca della Robbia, si configura così come la chiave per intendere il carattere etimologicamente extra-ordinario dell’opera sua – evidente nell’uso pressoché esclusivo della ceramica –, e l’incontro pacifico, che vi avviene, fra arte e artigianato, fantasia e tecnica, poesia e prosa.
Il lettore di oggi può misurare questa spiegazione complessiva dell’esperienza di Leoncillo in altri saggi della presente pubblicazione: ad esempio scorrendo, in quello di Stefania Petrillo, le scelte formali, le prassi espositive e le voci della critica attorno alle mostre dello scultore fra il 1944-’54; oppure concentrandosi, grazie all’analisi di Alessandro del Puppo, sullo spartiacque decisivo della fine di quel decennio, sulla XXVII biennale di Venezia e la crisi del ‘realismo’; e ancora calandosi, con lo scritto di Francesco Mariani, nel gruppo di opere dedicate alla Partigiana veneta e nell’esatto dipanarsi cronologico-stilistico dei vari pezzi all’interno della serie; penetrando, con la guida di Luca Bochicchio, attraverso l’iter esecutivo del Monumento ai Caduti di tutte le guerre di Albissola Marina (Savona) e il significato metaforico delle sue urgenze materiali in relazione al passaggio del maestro verso l’Informale; ricomponendo, per mano di Nico Stringa, le scelte formali e poetiche di Leoncillo alla luce del confronto con Arturo Martini prima e Lucio Fontana poi; infine domandandosi, con Maria Ida Catalano, quale ruolo abbia avuto nella definizione di un mestiere figurativo dalla forte marca esistenziale l’atto della scrittura, compresa quella trasmessa per i titoli delle opere.
Ne emerge un quadro sottilmente stratificato delle qualità espressive dell’artista, e una rappresentazione assai rinnovata di un capitolo cruciale di storia della scultura novecentesca, anche nei termini di una instancabile educazione umana.