La mano di Leonardo è il pantografo della mente di un genio. Conosciamo i suoi dipinti mirabili, e abbiamo visto innumerevoli volte le strambe righe che come granchi si muovono a ritroso nelle sue carte. Ma è solo oggi, dopo i primi sondaggi di Girolamo Calvi all’inizio del Novecento, che un bellissimo libro di Marco Cursi (Lo specchio di Leonardo. Scritture e libri del genio universale, Il Mulino, pp. 236, euro 22) ci permette di risalire con assoluta precisione dal gesto della mano al lampo del pensiero.

Cursi classifica ad uno ad uno, in uno straordinario lavoro di dettaglio, paziente e accuratissimo, tutti gli autografi di Leonardo, li ordina per età e tipologia di scrittura, per genere di penna o pietra o matita utilizzata, e giunge a interpretare le intenzioni profonde, l’architettura mentale in cui ogni nota o disegno prende posto sul foglio: spiega non solo «la convivenza tra le differenti tecniche scrittorie», ma le tappe del processo mentale che guida la mano.

DISCHIUDIAMO la porta del laboratorio interiore di quel genio occhieggiando i gesti che esegue davanti ai fogli bianchi, entrando nello sterminato spazio del suo pensiero e spiando la sua mano mentre si muove. Cursi studia le innumerevoli tracce autografe di Leonardo, affastellate spesso secondo l’impulso della ricerca in un caotico innestarsi di calcoli, dimostrazioni, disegni, abbozzi di quadri, note sulle forze naturali, soprattutto sulla violenza delle acque e dei venti, progetti fantascientifici (il volo umano, l’elicottero, la discesa sottomarina, il carro armato…).

Ms. Forster III, fol. 72r: «Cosa bella mortal passa e non dura» (immagine riflessa)

L’unica volta in cui pietra rossa e pietra nera si giustappongono, nel codice Forster III, Leonardo affianca «una considerazione riguardante la fisica dei pesi sovrapposti ad un pensiero sulla caducità della bellezza, che prende forma con l’immagine di un’anziana donna accompagnata dalla seguente didascalia: Cosa bella mortal passa e non dura». La «convivenza tra le differenti tecniche scrittorie» lascia percepire come fiorisca, in una selva selvaggia di pensieri e di emozioni, la tenerezza malinconica per il fulmineo svanire delle cose, evocato con un verso petrarchesco sul presentimento della morte di Laura.

Ma la Laura che Leonardo tratteggia nel suo disegnino con un guizzo umorale è una grottesca vecchietta sdentata, con il gozzo e gli occhi cisposi.
La mano che scrive fissa le idee elaborate nella mente, le rispecchia. Così andrà inteso, anche, lo specchio scelto come titolo da Cursi, il quale allude ovviamente altresì alla lettura degli scritti leonardeschi, composti «al contrario», secondo una direzione che sembra alterare quel processo «da sinistra a destra», intrinseco alla visione e alla rappresentazione del mondo visione in Occidente.
Come ha rilevato un indimenticato linguista e antropologo, Giorgio Raimondo Cardona, «il pensiero, in quanto organizzazione di rappresentazioni, nuclei, nodi, engrammi, è già una scrittura mentale per immagini».

LA SCRITTURA acquisisce il tempo, superando i limiti del qui e dell’adesso; offre una temporalità nuova alla caducità della parola che si spegne appena pronunciata. Una delle scoperte più acute di Cursi è la ragione per cui Leonardo muove la mano sinistra in senso inverso al nostro: perché è un «mancino non corretto», a differenza di Michelangelo, mortificato nel suo istinto spontaneo dai maestri che riuscirono «ad ottenere la sua definitiva sottomissione all’uso della mano destra, cui Leonardo non volle mai sottostare».
Leonardo, ribelle a qualsiasi «sottomissione», usava entrambe le mani, e quando voleva (a seconda della disposizione d’animo o della necessità di farsi capire) «sapeva scrivere anche da sinistra a destra», con uguale abilità.

C’è un appunto improvviso, un vero ghiribizzo, che attirò anni fa l’attenzione del miglior conoscitore di Leonardo, Carlo Pedretti. Si trova su un foglio di calcoli geometrici raccolto nel codice Arundel 263, oggi a Londra: «Eccetera, perché la minestra si fredda». Leonardo lo scrive di getto, forse irritato di dover interrompere il lavoro per ragioni banali, e accompagna la nota con un ghirigoro che sembra «una stenografia del pensiero», un appuntamento a sé stesso.

È l’estate del 1518, e Leonardo si trova nel piccolo castello di Cloux, vicino ad Amboise, offertogli l’anno prima da re Francesco I con tutti gli onori (là morirà un anno dopo). La sua mano sinistra stende i calcoli in un attimo di pura felicità mentale; ma la concentrazione dell’artista-scienziato viene interrotta dall’entropia della vita quotidiana: la fantesca Maturine entra forse nello studio chiamando il Maestro a tavola perché, appunto, «la minestra si fredda». Leonardo non poteva sapere che tanti anni prima, la sera di mercoledì 9 giugno 1350, Francesco Petrarca aveva fissato la memoria in un evento simile nel codice degli abbozzi, mentre imbastiva una canzone lirica («Volui incipere, sed vocor ad cenam»).

ASSORTO nella dimostrazione e preoccupato di non perdere il filo del ragionamento Leonardo reagisce inglobando nel testo l’irruzione della vita, quasi per annullarne la prepotenza.

«Eccetera, perché la minestra si fredda»: così, con la scrittura, interiorizza l’esteriorità. Il gesto veloce della mano, nell’eccetera, sembra voler negare che la vita è breve, troppo breve per contenere tutto il «tempo a venire». Esso non arriverà mai a compiersi, ma esiste nella potenzialità dell’istante in cui lo si immagina e lo si crea: nella mente dell’artista.