Una capanna. Nulla di più hanno avuto in comune le esistenze di quattro uomini totalmente diversi tra loro, nel tentativo di trovare, ritrovare, far propria la dimensione perduta della semplicità. Quattro capanne o della semplicità è il titolo dell’ultimo saggio del filosofo Leonardo Caffo, pubblicato da Nottetempo nella nuova collana Terra. Gli uomini che Caffo racconta appartengono a quella Modernità che ha generato la seconda rivoluzione industriale e da lì in poi nuove tecnologie e nuove scoperte; che ha accelerato i mutamenti sociali, risposto a necessità reali e imposto falsi bisogni; che ha ingabbiato l’individuo dentro un modello collettivo ‘per accumulo’ da cui è impossibile sottrarre e sottrarsi. Ci hanno provato, scegliendo la via della semplicità che porta a una capanna, il pensatore e scrittore americano Henry David Thoreau per due anni, due settimane e due giorni dal 4 luglio del 1845; il matematico e terrorista Theodor ‘Unabomber’ Kaczynsky dal 1971 alla sua cattura nel 1996; il grande architetto Le Corbusier dal 1952 al 1965, anno della sua morte in mare proprio davanti al Cabanon progettato per la moglie Yvonne Gallis. Discorso a parte riguarda la capanna di Ludwig Wittgenstein, nascosta dentro il fiordo norvegese di Lustra, nella quale il filosofo cercò tante volte rifugio a partire dal 1914, quando abbandonò l’Università di Cambridge. Quale idea di semplicità insegue Thoreau andando a vivere nella capanna che si costruisce sulla sponda settentrionale del piccolo lago Walden, non lontano dalla cittadina di Concord, Massachusetts?

Scrive Caffo: «Il mondo sociale come lo conosciamo noi… prende forma in quegli anni. Thoreau… si trova a osservare un cambiamento che non è paragonabile ad altro fino a quel momento. Una tesi importante: la semplicità, come modello di vita, scompare dall’Occidente proprio con questo processo di trasformazione». Nel 1845, erano le candele a illuminare il buio e l’urbanizzazione degli spazi ancora agli inizi, la bicicletta invenzione recente, telefono e radio di là da venire «La capanna di Thoreau nasce dunque in opposizione a qualcosa di emergente e non di già dato, ovvero rispetto a uno ‘stato di cose’… che si stava per palesare, ma che ancora non apparteneva del tutto alla realtà… Mentre un mondo sociale in crescita manifestava la sua esigenza di emancipazione definitiva da quello che era lo ‘stato di natura’, Thoreau operava sostanzialmente un gesto di resistenza (detto di passaggio: la semplicità è sempre un gesto di resistenza)».

Un gesto simbolico, che non avrà alcun peso al pari del monito che il filosofo lancia, inascoltato «Semplicità, semplicità, semplicità! Dico che i vostri affari siano due o tre e non cento o mille; invece di un milione contate mezza dozzina, e tenete i vostri conti sull’unghia del pollice». Sottolinea Caffo: «La società verso cui Thoreau manifestava dissenso e opposizione era una società che aveva cominciato a fare del nostro corpo un rimosso: e allora il freddo, la fatica, la durezza del luogo che Thoreau si era autoimposto agivano come una traccia, come una denuncia di questa resistenza». Una resistenza che tuttavia non lo porta a isolarsi «La capanna è concepita come un luogo di passaggio… Come se il semplice fosse un esercizio per rientrare nel complesso con uno spirito nuovo, diverso. Il cliché… di Thoreau come amante della solitudine non è per nulla vero: chiacchierone, estimatore della compagnia, il filosofo ha fatto del dialogo il suo strumento privilegiato, tanto che tornava in continuazione in città per bere, mangiare e spesso per far festa».

Un salto temporale di oltre un secolo ci porta al 1969. È in quell’anno che il giovane (ha appena ventisei anni) e intelligentissimo (il suo QI è 165/ 170) Theodor Kaczynsky si dimette dall’incarico di docente di Matematica all’Università di Berkeley. Torna dai genitori a Lombard, Illinois, e per un paio di anni lavora nella fabbrica del padre. Nel 1971, su un terreno di famiglia a Lincoln, Montana, costruisce una capanna priva di acqua e di elettricità. Ci vivrà fino al giorno del suo arresto, il 3 aprile 1996. Thoreau si ritira dalla vita, Kaczynsky, dalla vita, scompare. Caffo: «Kaczynsky… viveva all’interno di un contesto scientifico avanzatissimo che consentiva in un sol gesto una grande spinta verso il futuro, ma anche una terribile nostalgia anticipata per il passato. In questa tensione prima/ dopo c’è tutto il senso del paradosso della vita semplice che con Thoreau non era ancora chiaro e che con Kaczynsky diventerà chiarissimo». Il genio eremita si è ritirato dal mondo, ma sente di dover ricucire in qualche maniera questo strappo. E lo fa usando l’arma della violenza. I sedici ordigni inviati per posta dal 1978 al 1995 causeranno il ferimento di ventitré persone e la morte di tre. La maggior parte dei pacchi erano destinati a docenti e lobbisti con ruoli significativi all’interno della rivoluzione tecnologica.

«La struttura del principio di semplificazione che adotta Kaczynsky è contraddittorio: mentre comprende di doversi interessare al semplice, continua a essere ossessionato dal complesso… Kaczynsky non vuole sottrarre la sua vita al dominio della complessità perché vuole sottrarvi la vita di tutti». Nel 1995 invia una lettera scritta a mano al Dipartimento di Giustizia. Se il suo manifesto, La società industriale e il suo futuro, verrà pubblicato, gli attentati finiranno. New York Times e Washington Post lo pubblicano. Questo l’incipit : «La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state disastrose per la razza umana». E poco oltre: «Il sistema tecnologico industriale può sopravvivere o crollare. Se sopravvive, potrebbe, alla fine, raggiungere un basso livello di sofferenze psicologiche e fisiche, ma solo dopo un lungo periodo molto doloroso di aggiustamento e solo al costo di ridurre permanentemente gli esseri umani e molti altri organismi viventi a prodotti costruiti, semplici ingranaggi nella macchina sociale».

L’analisi di Caffo sulla figura e sul pensiero di Kaczynsky va oltre il suo modus operandi di terrorista, ovviamente senza escluderlo e giustificarlo, rivelandone la complessità, la profondità, le intuizioni quasi profetiche. Non risulta fuori luogo affermare che se il geniale matematico non avesse scelto la strada della violenza (ma anche in questo caso le sfaccettature non sono irrilevanti) i suoi scritti godrebbero di meritata celebrità. Kaczynsky sogna di riportare indietro l’orologio, un sogno condiviso dall’agente dell’FBI che lo arresta ‘Sai, invidio molto della tua vita quassù’. Un elicottero trasporterà la capanna a Washington per farne una prova processuale. Lì è rimasta, in una sala del Newsum. L’ultima cosa che Theodor avrebbe voluto.

Il 30 dicembre del 1951, in una trattoria della Costa Azzurra, Le Corbusier disegna su un tavolo il progetto di un Cabanon, una capanna, regalo di compleanno alla moglie, che verrà realizzata tale e quale l’anno seguente. Sottolinea Caffo: «Le Corbusier ha già sessantaquattro anni e la sua esistenza, come il suo progetto, è ormai compiuta: la semplicità che emergerà in questa terza immagine di una vita possibile non è una strategia di fuga, ma di uscita». Soddisfatto fino alla sazietà della fama e del denaro che gli ha portato, autore riconosciuto di un’autentica rivoluzione architettonica planetaria, nella sua capanna l’inventore del Modulor, rivisitazione dell’Uomo Vitruviano di Leonardo, legge un nuovo e definitivo modo di vivere. Il Cabanon, prefabbricato in Corsica, arriva via nave e treno a Cap Martin. Si sposta cioè dal contesto sociale a quello naturale. E allora: «Le Corbusier… comincia a comprendere che ciò che diventa sempre più interessante ai suoi occhi è lo spazio esterno alla costruzione, dove inizierà di fatto a trascorrere le sue giornate… Alla fine della sua vita, nelle sere d’estate di fronte alla capanna, Le Corbusier non era più un architetto, era l’architettura stessa: come nelle storie zen, l’oggetto della sua esistenza si era trasformato nel soggetto». Quanto alla capanna di Wittgenstein, il nostro obbligo di sintesi ridurrebbe a poca cosa la descrizione di un rapporto che durò fino alla morte del filosofo.

‘Capanna in movimento’, la definisce Caffo, luogo/ non luogo, rappresentazione dell’irrequietezza e dell’inadeguatezza, eterne compagne di Wittgenstein. È questo il capitolo in cui l’autore più mette in gioco se stesso e il suo pensiero, ci consegna apertamente i suoi dubbi e la consapevolezza dei propri limiti. Lo fa entrando in quella capanna, non prima di aver affermato «Io credo che sia impossibile, letteralmente impossibile, parlare di Wittgenstein». Impossibile, allo stesso modo, trarre conclusioni? Chiediamo a Caffo di provarci mentre guardiamo un’altra capanna, ne leggerete tra poco. «Ciascuna capanna nasce da un conflitto, è un progetto di sabotaggio della disciplina che ha guidato a costruirla. Ciascuna capanna sfuma via via per diventare una forma di vita. E in questa vita, la semplicità è sottrazione che comporta ogni volta dolore. La semplicità rimane comunque e soprattutto un desiderio».

Appendice: Quella «cosa» sul prato, archetipo di abitazione

Tutto ti aspetteresti, ma non «quella cosa lì». Sul prato di una casa in mezzo ai boschi che circondano il lago di Como, immagini un gazebo, una pergola, un’altalena. E invece ti trovi davanti «quella cosa lì», a prima vista versione lignea dell’Apollo 11, di un insettone da Bmovie di fantascienza, di uno dei mostriciattoli che popolano i dipinti di Hieronymus Bosch.

È un poliedro a sei facce, poggiato su quattro zampe, altro quattro metri, finestre sui lati, una scaletta per entrare. «Quella cosa lì» è la quinta capanna, un’idea di Andrea Gessner, fondatore di Nottetempo, progettata e realizzata grazie al lavoro collettivo di Waiting Posthuman Studio, Landscape Choreography, Sumiti, Ebony Carpentry. Sul prato, di fronte a una piccola platea di ospiti, Gessner racconta: «A me piace molto il concretizzarsi delle idee. Sono un editore, quindi lascio ad altri l’immaginazione, per poi ricavarne degli oggetti. In questo caso, dal libro di Leonardo Caffo. La capanna è un archetipo, una delle prime abitazioni dell’uomo. Inaspettatamente, con la pandemia, siamo tornati a costruirci la capanna, a soffrirne la sindrome, ad avere paura di uscirne durante e dopo il lockdown. Noi avevamo cominciato a pensarla un anno fa come spazio di sperimentazione e di riconnessione con il mondo».

Riconnettersi al mondo, fuori dai confini urbani, vuol dire, ad esempio, provare a trascorrere una notte nella capanna, Gessner lo ha fatto, e scoprire che dal suo interno si vedono soltanto le stelle; avvertire la paura degli animali selvatici, dei loro fruscii, dei loro versi. «Secondo me, il punto focale di questo strano oggetto è la scaletta, un po’scomoda, bisogna fare attenzione a salire e scendere. Simboleggia l’attenzione che dobbiamo a questo pianeta nell’abitarlo con più consapevolezza, più rispetto. Con più semplicità».

Identico obbiettivo si pone la nuova collana di Nottetempo, Terra, che, ispirata da La caduta del cielo, libro – testimonianza di Davi Kopenawa, leader degli indios amazzonici del Brasile, ha appena pubblicato, oltre a Quattro capanne o della semplicità, Forest Law – Foresta Giuridica, Sulla pista animale, Linguaggi animali. La capanna, si diceva, è frutto di un lavoro collettivo. Due gli autori del progetto. Waiting Posthuman Studio è una piattaforma di ricerca che indaga i terreni al margine tra filosofia, arte e architettura. «Un progetto così – spiega Azzurra Muzzonigro di Waiting – rappresenta ciò che la piattaforma intende fare: dialogare e creare degli insiemi unitari».

Landscape Choreography, piattaforma collaborativa fra artisti, operatori culturali, università, enti locali e gruppi di cittadini, promuove su vari fronti di intervento un uso diverso dello spazio urbano. Emanuele Braga: «Il disegno della capanna si ispira al movimento afrofuturista del musicista jazz Sun Ra, che ipotizza l’arrivo di un’astronave madre con a bordo una colonia di neri decisi a migliorare le condizioni di vita sulla terra. La capanna astronave diventa lo spazio dove ripensare il presente e il futuro del nostro pianeta». A Sumiti, piccola falegnameria con sede dentro Ri-Maflow, fabbrica milanese trasformata in una cooperativa di artigiani, si deve la parte produttiva. Ricorda con un sorriso finalmente disteso Soema Fedtke: «Un pomeriggio, Emanuele mi chiama: ‘C’è da fare una capanna’. Gli rispondo: ’ok’. Mesi dopo si presenta e mi propone una cosa impossibile. Ho dovuto lottare mesi e mesi con Rhino, il sistema operativo. Ogni volta mi diceva ’no’». La realizzazione è stata affidata a Ebony Carpentry, una cooperativa di profughi e richiedenti asilo dal Ghana.

Due di loro sono lì, sul prato in mezzo ai boschi. Quando Azzurra chiede se vogliono raccontare qualcosa dei mesi trascorsi a segare, piallare, montare, dipingere, Samuel risponde soltanto: «Grazie al cielo abbiamo finito». A volte la semplicità è molto complicata. Per i cultori di gadget: è in cantiere un modellino della capanna, scala 1 a 200. Tranquilli: le istruzioni di montaggio non le scriverà Leonardo Caffo.

La kermesse
Leonardo Caffo sarà tra gli ospiti della sedicesima edizione di Torino Spiritualità, 24/ 27 settembre. Respiro è il percorso scelto dal direttore Armando Bonaiuto, richiamando ciò che di più prezioso, durante la pandemia, è mancato a tutti noi, tragicamente per decine di migliaia di persone. Il respiro del festival sarà «Il respiro fermo del tempo sospeso, il fiato corto della sorpresa, l’espirazione profonda che libera sollievo, il soffio vitale della libertà e del raccoglimento».

Due le nuove sedi: il Padiglione allestito in piazza Carlo Alberto, che ospiterà anche l’inaugurazione con il dialogo fra il teologo Vito Mancuso e la divulgatrice scientifica Alessandra Viola, Di uomini e di piante: il respiro dei viventi; il cortile del Combo, l’ostello a un passo dal mercato di Porta Palazzo. Scegliendo tra gli appuntamenti, la sezione Lezioni di respiro vedrà il filosofo Salvatore Veca proporre Profuma di mele il tuo respiro: il Cantico dei cantici, lettura laica del poema; Vento, respiro del mondo: Cristoforo Colombo è il tema scelto da Giulio Busi, filologo, direttore dell’Istituto di giudaistica alla Freie Universitaet di Berlino. I dialoghi sul respiro porteranno l’antropologo Marco Aime, il linguista Federico Faloppa e lo storico Carlo Greppi a confrontarsi sugli esclusi partendo da un verso di Alda Merini, Gli emarginati hanno il fiato dolce; di Congedi impossibili. La morte e l’emergenza discuteranno il monaco e tanatologo Guidalberto Bormolini, il maestro buddhista Lama Michel Rinpoche, lo storico Giovanni De Luna. Fitta di nomi e di varianti sul tema la sezione Il respiro nelle tradizioni religiose, da Respirare il nome di Dio, con il teologo Maciej Bielawski, a L’arte apre il respiro con il vescovo Derio Olivero. Musica e respiro intreccerà i canti delle confraternite sufi dell’Islam senegalese con le sonorità medievali del coro dell’Abbazia della Novalesa; il concerto di Marco Lienhard sarà occasione per ascoltare lo shakuhachi, il flauto tradizionale giapponese.

Info: torinospiritualita.org. circololettori.it