Leonard Cohen narrava di muoversi con le foglie, di essere quasi vivo e di essere quasi a casa in The Goal, poesia dell’ultimo album Thanks for the Dance, ma nella nostra realtà stava morendo. Così da far sembrare la morte un continuo andare e venire, un’infinita estensione del tempo, senza inizio e senza fine. Avrebbe compiuto 88 anni, il 21 Settembre, quando le foglie, appunto, iniziano a muoversi. Dilatare la propria esistenza, che non vuol dire vivere con lentezza ma prendersi il tempo e donarlo a seconda di quello che l’anima e il corpo richiedevano. Un meccanismo perfetto, che solo arrivando a Hydra, piccolissima isola greca, Cohen ha potuto apprendere come la più utile delle discipline per far venire fuori tutto il suo essere. Hydra ha donato a Cohen l’amore della vita e di una vita, Marianne. Gli ha donato un abito nuovo che sostituisse il vecchio, quell’abito per bene che lo intrappolava nelle sue radici, e che lo avrebbe costretto a seguire uno schema. Hydra gli ha strappato via la sua indole tormentata e l’ha trasformata, approdando come poeta per poi scoprirlo scrittore e cantautore e per essere poi conosciuto nel resto del mondo nel suo completo.

La via dedicata a Leonard Cohen a Hydra

 

SENZA TEMPO
Il tempo a Hydra si vede ma non si sente, se non in alcuni momenti quando le campane rimbombano in maniera ossessionante, per poi placarsi e addolcirsi in un momento finale. Ed è la prima cosa che si vede arrivando qui: la torre dell’orologio con le sue campane, che domina quel piccolo porto a forma di ferro di cavallo, dove asini e gatti accolgono gli stranieri. È il luogo «where time itself unwind», dove il tempo stesso si srotola, come cantava in The Faith.
Cohen in ogni suo verso, racconta di Hydra, della mancanza del tempo fisico, la ricerca di se stessi e l’abbandono totale verso la ricerca della pace. La ricerca spasmodica di ogni dettaglio, che altrove sarebbe parso inutile, ma che qui, come anche solo nell’osservare l’equilibrio di un uccellino su un filo, diventa essenziale. Le piccole cose a Hydra diventano essenziali come la luce che si riflette sulle casette bianche dai portoni blu e legno vivo. È come se Cohen avesse plasmato Hydra nelle sue canzoni. Qui per tutti è solo Leonard, e non c’è traccia di lui che si veda agli occhi, bisogna chiedere e si avranno risposte. Leonidas e Panayota, sono due ottantenni che vivono salendo il porticciolo, accanto a quella che è stata la prima casa di Marianne. Marianne nella sua fragilissima e gentilissima bellezza mai dimenticata. Cohen e Marianne sono stati qui, ma in tempi diversi. Insieme non hanno mai varcato quella porta, però a entrarci dentro sembra che la loro storia si ricongiunga di nuovo tra lacrime e sorrisi. Leonidas e Panayota avevano una taverna qui. Leonidas aveva conosciuto prima Leonard a New York quando era aiutante per un cuoco italiano. E dopo molti anni se lo era ritrovato cliente e amico ed anche se ora non è più aperta al pubblico, la taverna è rimasta tale e quale, a custodire i ricordi di un anziano che non sa leggere ma che apre il suo cuore ai ricordi con minuziosa pazienza.
Leonidas e sua moglie conservano la tenerezza e l’accoglienza che solo la solitudine della vecchiaia può donarti se i ricordi del passato sono sempre generosi. Offrono vino e melone e aprono le porte di quella che prima era un rifugio per molti sull’isola. Nei racconti di Leonidas, Cohen amava fissare il cibo che cuoceva lentamente, gli piaceva osservare la lentezza nella cottura, e non aveva mai fretta. Così stava seduto su una panca mentre Leonidas gli ribadiva che «per cucinare bene ci vuole tempo». Ci vuole tempo, appunto. Veniva sempre con i suoi amici e Leonidas inizia a spiegare che a Leonard piacevano le melanzane ripiene. Fa il gesto dello scavare con la mano, per far capire che svuotava la melanzana per poi riempirla come la ricetta tipica del sud Italia, che aveva appreso sempre quando stava a New York da quel cuoco italiano di cui sopra. Era silenzioso, e qui, secondo Leonidas, aveva trovato tutto il tempo che voleva, quello che altrove gli avrebbero rubato. Ma è Panayota che ha gli occhi lucidi, indicando col dito la soglia nel ricordare l’ultima volta che Marianne è stata qui «piangeva»! Mostra alcune cartoline, che non aveva mai mostrato a nessuno. Sono di Marianne, che negli anni non hai mai dimenticato l’affetto di Leonidas e Panayota e sua zia Sophia.

CARTOLINE
La prima data il 1958, dove Marianne scrive: «Mi ricordo quando vivevo accanto a voi. Nei nostri cuori niente è cambiato». E poi un’altra che ha il front con la sua foto, con gli occhi grandi e la bocca coperta da un maglione nero, con dietro l’indirizzo di casa sua in Norvegia «Vi ricordate di me?» Deve essere degli anni Novanta, perché non era più la Marianne di Cohen ma era una donna che era andata via. L’ultima è del 2006. Marianne è colma di gratitudine verso la zia di Panayota: «Sophia è stata come una mamma per me, quando arrivai qui nel 1956». Poi scrive una cosa al lato della cartolina, qualcosa che a molti sembrerà banale ma in realtà è una frase che Cohen diceva sempre quando chiudeva un discorso: «And all good things». Una frase che diventa particolare collante di un amore mai finito. Panayota ha gli occhi lucidi parlando di Marianne, mostrandola come una donna dolcissima e fragilissima, che ha avuto in Cohen la protezione e la dolcezza, che il primo marito non aveva saputo darle. Tutto quello che poi Leonard ha cantato è stata quella fragilità, quel dolore e quella forza di un amore che a Hydra si svegliava con il sole e andava a dormire con la notte, per poi ricominciare. Come il tempo, che si srotola su se stesso. Erano le stagioni a dare il cambio nelle persone, così accadeva che in inverno Cohen trascorresse molto tempo in una piccola sala cinematografica dove si riuniva al massimo con una ventina di persone. Lakis Christidis ha ora 74 anni, si prende cura di un piccolo e amorevole negozio di abiti e gioielli, proprio sul porto. Ha gli occhi gentili e non è mai invadente, aspetta sempre che gli venga chiesto un ricordo, perché altrimenti tiene tutto dentro di sé. Tutto vestito di bianco, racconta di come Leonard e lui passassero il tempo qui alla fine degli anni Settanta e di come Cohen amasse i film europei, da Godard ad Antonioni e Bertolucci. Ma c’era un film che amava particolarmente, e che aveva rivisto più volte, La strada di Fellini. E che per quanto ci potevi passare del tempo insieme, era amichevole certo, sorridente, e però restava molto chiuso.
L’arte di Cohen è lo specchio di quanto questa isola gli ha donato: da qui ha preso l’eleganza con cui i gatti si avvicinano agli stranieri, con cui ti lasciano entrare nel loro mondo ma non devi mai calpestare il loro territorio. Si è caricato di parole e pensieri, di angoscia anche, come i muli che sono l’unico mezzo di trasporto qui. E che nonostante la fatica, che siano pacchi, legname o dolore man mano che si sale, che si raggiunge la meta tutto diventa più leggero. Hydra non lascia lo spazio ai rancori, alla rabbia, non dona vendetta, non c’è niente che si può superare qui, la sfida è solo con se stessi. A Hydra il tempo è diviso in piccoli frammenti e sei tu a decidere in che modo incastrarli nella tua mente. Così come Cohen ha fatto poi in tutti i suoi libri, le sue canzoni. Cohen si è lasciato plasmare da un’isola che lo ha reso custode nelle sue canzoni di quella pace, quel silenzio, quel tempo che si vede e che se non si sente, se non fosse per il rintocco delle campane. Un’isola che lo ha visto spezzato ma che gli ha donato la luce «Ring the bells that still can ring, forget your perfect offering. There is a crack in everything, that’s how the light gets in» («Suona le campane che ancora possono suonare, dimentica la tua offerta perfetta, c’è una breccia in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce», da Anthem).