Potrebbe sembrare inattuale un film sulla guerra dell’ex Jugoslavia, ambientata oltretutto quando sta finendo al momento dei trattati di pace, ma Perfect Day (in uscita il 10 dicembre) del regista madrileno Fernando de Aranoa (Los lunes al sol, Princesas) ci mostra attraverso uno speciale «visore» qualcosa che ha a che fare con tutti i conflitti, l’antro del pozzo in cui è stato gettato un cadavere per avvelenare l’acqua. Non è solo una ripresa necessaria, quella di mostrare una corda lanciata a cercare di tirare su un cadavere piuttosto pesante, ma un punto di vista a cui de Aranoa ritorna più volte: il buco nero attraverso cui posizionarsi per afferrare il mistero inevitabile della guerra. Subito dopo compare il secondo elemento del film, l’humour nero: come avrà fatto ad ingrassare tanto quell’uomo quando non si trovava niente da mangiare?

L’assurdità della guerra e delle situazioni della vita quotidiana si intrecciano inestricabilmente nel film e nei protagonisti, i cooperanti che provengono da diversi paesi e che cercano di risolvere problemi. Ma chi sono questi operatori umanitari e perché li ha resi protagonisti?

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«Da un lato – spiega il regista – fanno un tipo di lavoro di importanza sociale, dall’altro il cinema e i romanzi non se ne sono occupati. Ho sempre pensato tra un film e l’altro di fare documentari su questo tema, ho iniziato venti anni fa nelle zone di conflitto della Bosnia, intorno al ’95 ovvero l’epoca che descrivo in Perfect day. Ho lavorato tra l’altro anche con Medici senza frontiere in Africa, in Somalia e in Congo. Di questo lavoro mi affascinava la routine molto poco ordinaria, carica di adrenalina. Ogni giorno i cooperanti devono affrontare diverse questioni e non sono problemi epici come salvare bambini, ma il loro sporco lavoro giornaliero. Come dice Mambru (Benicio Del Toro): «siamo gli idraulici della guerra, quelli che riparano i tubi, le latrine». Entrano nel conflitto disarmati, con tanto senso dell’humour che ho cercato di far emergere nel film».

Ricordiamo i primi film provenienti dalla Bosnia già durante il conflitto e subito dopo, tutti con una forte dose di humour nero, non inaspettato per la loro tradizione culturale, ma sicuramente per la situazione: «Anche se c’è sempre un riferimento ai film che mi sono piaciuti, come La grande guerra di Monicelli, nell’esperienza reale più la realtà è drammatica più importante è il senso dell’umorismo. È un meccanismo di difesa, consente di prendere le distanze. Se mancasse a questi cooperanti non ce la farebbero a restare neanche due mesi. L’attore che interpreta il traduttore (Fedja Stukan), ha vissuto il conflitto, ci raccontava che si stava quindici giorni in guerra e nei tre giorni a casa si facevano feste, si beveva, si coglieva quanto di meglio poteva offrire la vita. Più estremo è il dramma tanto più forte è l’umorismo, così da rendere il dramma vitale, come esprime il personaggio di B interpretato da Tim Robbins».

Ci chiediamo se la tragedia nell’ex Jugoslavia finita da tempo, abbia ancora qualcosa da raccontare al pubblico: «Sono passati venti anni, ora se ne può parlare, c’è la prospettiva giusta. Poiché in questo film era importante parlare dei cooperanti gran parte della storia si potrebbe applicare a qualunque guerra, però il fatto che io fossi stato in quella zona mi avrebbe aiutato a trasmettere meglio le sensazioni di quanto succedeva. Ci sono stati fatti particolarmente crudeli, ne vediamo alcuni, ma il nemico più grande è stata l’irrazionalità. Volevo sottolineare come, a prescindere dagli aiuti esterni, è la gente del posto che deve risolvere i problemi. I cooperanti tentano di sistemare qualcosa e riescono a farlo perché sono disarmati, a prescindere dai soldati e dalla burocrazia. E quando sono frustrati perché non riescono a risolvere un problema, passano subito a quello successivo».

Il film è ispirato al romanzo di Paula Farias dal titolo Dejarse llover: quanto lo rispecchia? «Il libro è un importante punto di partenza. Nasce dalle esperienze di Paula Farias che lavorava come medico senza frontiere e dalle mie stesse esperienze. Mi interessava l’inizio della vicenda, il tentativo di estrarre il corpo dal pozzo, la ricerca della corda mi sembrava una buona metafora. Ci sono nel romanzo bellissimi momenti di riflessione poetica ma non potevano trovare posto in un film d’azione, non ci sono né donne né bambini come nel film. Adesso le cose sono diventate molto più difficili, lo raccontano i miei contatti e i medici senza frontiere che ora si trovano in Siria: non ci sono regole, lo dimostra il bombardamento dell’ospedale. Scene terribili: tirano fuori i feriti dalle ambulanze, li finiscono e procedono».

Oltre al film in fase di scrittura su Pablo Escobar con Javier Bardem e Penelope Cruz, Fernando de Aranoa sta montando un documentario su Podemos, dove si segue tutto il processo politico che ha portato il movimento alla formazione del partito che ora si presenterà alle elezioni.