Entropia: «Variabile termodinamica di stato, interpretabile come misura del disordine di un sistema» (Diz. Sabbatini Coletti). Viviamo una fase di entropia. Lo dimostra lo spettacolo offerto dal Pd in via Alibert a Roma, con la dinamica centrifuga del suo quadro dirigente, l’aggrovigliarsi dei linguaggi e il destino del governo appeso a un Segretario (accerchiato) che lo regge come la corda regge l’impiccato. Né sembra meno destrutturato il quadro sugli altri due versanti del nostro tripolarismo: M5S e Centro-destra.

Entropia, dunque. E quando si è all’interno di un processo entropico, la cosa peggiore che si possa fare è ragionare come se il sistema fosse in equilibrio. O, rotto l’equilibrio, i pezzi muovessero lungo traiettorie prevedibili.

Non è così. Ogni giorno il quadro cambia. Ogni pezzo sta altrove rispetto a dove era ieri, ma anche rispetto a dove avremmo pensato ieri che dovesse essere oggi. Ogni mossa apparentemente strategica si rivela, l’indomani, miserabilmente tattica.

Ogni grande annuncio un provvisorio ballon d’éssai. Renzi, D’Alema, Bersani, ma anche Grillo, Salvini, Meloni, e i loro equivalenti in sedicesimo, giocano alla giornata. Le loro mosse scadono come il giornale quotidiano al successivo lancio d’agenzia. La data delle elezioni, il sistema elettorale, la durata del governo, il destino del referendum sul jobs act, si riconfigurano ogni giorno come i colori del caleidoscopio a ogni giro del cilindro.

Faremmo un errore clamoroso se fissassimo la nostra discussione sulla configurazione del giorno: che farà d’Alema? Ci sarà la scissione? E in questo caso ignorarla o seguirla con interesse? O magari tifare per la rottura? Appenderci ai dubbi di Bersani? Alle ambiguità di Pisapia? Ne usciremmo, pure noi, pazzi. Oppure tanto confusi da finire subalterni all’ultimo lancio di dadi.

Penso all’articolo dell’amico Asor Rosa sul manifesto, popolato di ipotetiche e di fantasmi, fino all’evocazione a funerali avvenuti di un «centro-sinistra di governo» – categoria sinistrata quant’altre mai – e alla speranza in un’unità tra anime morte senz’accorgersi che tali sono…

Tanto ossessionato dall’orrore grillino da scambiare la vittoria del 4 dicembre – vittoria in primo luogo della Costituzione e di chi ha creduto nella sua difesa, vittoria del buon gusto e buon senso giuridico -, con una sconfitta. (’Ragionare oltre la sconfitta’, è il titolo). E da esser pronto a morire per un ritorno di tutti all’ovile, liquidata la guida pastorale di Renzi.

Eppure Asor Rosa era uno tosto, quando vestiva i panni del giovane leone dell’operaismo (erano gli anni Sessanta) e scriveva che «nulla è più odioso dei sacrifici inutili» prendendo a ceffoni, per questo, i Calvino e i Fortini rei di andare «all’assalto impugnando gli eterni valori».

Per dire dei brutti scherzi che gioca, anche nei più nobili, l’entropia contemporanea. La quale non disorganizza solo le categorie ma anche la successione storica, che sarebbe invece utile considerare, soprattutto ragionando del Pd e del suo dominus.

Renzi è pazzo. In questo ha perfettamente ragione D’Alema. È pazzo come lo era Riccardo III, quello convinto, al pari di lui, che «convien esser veloci quando siamo accerchiati da traditori». E che di fronte al messo che gli annunciava l’arrivo dell’esercito del «grande Buckingham» – quello che l’avrebbe strippato – dava in escandescenze al grido «Via, gufi! Nient’altro che annunci di morte?».

È pazzo quando delira del 40% alla portata del suo Pd. Quando vuole il voto subito – politiche o primarie, per lui pari sono – solo perché sa che ogni mese che passa perde pezzi e appeal. Celebra la sentenza della Corte sull’Italicum come una propria vittoria, dimenticando nella fretta e nello smodato amore di sé che era la «sua» legge elettorale, celebrata come la più invidiata d’Europa e imposta con voto di fiducia.

Alla fine dovrà anche lui implorare «un cavallo, il mio regno per un cavallo». Ma non dobbiamo dimenticarci che l’ascesa di Matteo Renzi non fu lo scivolone su un percorso sano. Fu l’estremo tentativo di tamponare una crisi che appariva terminale per il Pd. Il successo che ebbe tre anni fa fu dovuto alla sindrome entropica – ancora l’entropia – che travolgeva il partito di Bersani, erede di quello di Veltroni, e prima di D’Alema, arrivato allora al capolinea.

Renzi assorbì dentro di sé la crisi del Pd, e come una matrioska tutte le crisi «di sistema»: quella del Parlamento delegittimato, del sistema politico destrutturato, del sistema economico agonizzante. Li avvolse in una bolla di folle ottimismo verbale e di ossessiva pratica del potere.

Ora che cade tutte le linee di crisi che aveva ricondotte a sé si dispiegano, come e peggio di allora. Sognare un Pd rigenerato dalla sconfitta di Renzi è follia almeno pari alla sua.

Se se ne prendesse atto, si risparmierebbero tante illusioni. Si capirebbe che le convulsioni saranno lunghe, e che la bella sinistra non è alle porte. Né ricuperando gran parte del Pd, né riaggregando i frammenti che ha lasciato fuori.

Certo. Quando si è nel pieno di un processo entropico, non si può far finta di esserne fuori. Ma c’è modo e modo di vivere l’entropia. E quello meno dannoso è la presa di distanza. Non dalle questioni, ma dai singoli pezzi. Lo sguardo lungo anziché quello corto o cortissimo.

L’allontanamento del «punto di stazione» (secondo la prospettica) cioè della posizione da cui si guarda. Intendo l’allargamento dell’orizzonte: quello europeo, in furioso movimento. Quello Atlantico dopo la Brexit. La variabile americana con Trump. Per non farci travolgere dal vortice (le miserie di Virginia, le bizze di Matteo…), è bene tener ferme le gerarchie tra gli eventi, concentrandoci almeno noi, con una seria riflessione, su quelli che contano e non sui cascami contingenti.