Il dolore, scrive Remo Cantoni (1914-1978), «tende a creare fenomeni di isolamento, esclusione e separazione. Fra l’io e il mondo esterno sorge disarmonia, scissione. La realtà non pare più il teatro della libera iniziativa umana, ma piuttosto una potenza ostile e minacciosa».

Chi è preda del dolore perde la misura che gli consente il controllo d’una situazione, la prudenza che gli permette di evitare e superare ostacoli. Compressa nel dolore la vita interiore, continua Cantoni, si blocca in un «contrasto di forze che non raggiungono il loro equilibrio e la loro pacifica convivenza. Come un prigioniero in una buia cella, l’infelice incontra in ogni direzione muri che impediscono il movimento e ribadiscono la servitù».

Così si legge in Aspetti negativi del dolore, una delle note settimanali che, tra 1950 e 1954, appaiono regolarmente su Epoca, e verranno poi raccolte in volume sotto il titolo La vita quotidiana. Nel 1954 Cantoni introduce la «limpida, icastica e sobria traduzione che Salvatore Quasimodo ha compiuto dell’Elettra di Sofocle» con il saggio Libertà e destino nella tragedia. Vi si prende in considerazione, tra l’altro, la categoria dolore quale in Sofocle si declina, la incidenza non eliminabile che essa riveste, mai estirpata, nella vita degli uomini. Il dolore impenetrabile che avvolge da anni di Elettra: «E venne per me/il giorno più funesto!/O notte, o immenso tormento/del ripugnante banchetto!/Mio padre vide allora la sua morte/così atroce. Furono in due a colpirlo;/e con inganno, poi, le stesse mani/mi ridussero schiava/e m’annientarono la vita».

E, della poesia tragica di Sofocle, Cantoni richiama i motivi di un «pessimismo senza pari» e riporta, dall’Edipo a Colono, «le ghiacciate parole che la miglior cosa per noi creature effimere sia quella di non esser nati o ‘appena emersi a questa luce, presto là ritornare di dove si giunge’». Un verso dell’Elettra, sentenza celebre per la sua inderogabile nettezza, ammonisce: «I mortali hanno in sorte la morte». E torna il tema della dismisura quale radice di ogni male e fonte di immedicabile dolore. A contravvenire il consiglio della Corifea («Lasciati convincere: gli uomini non hanno ricchezza maggiore della prudenza e della saggezza»), al suo dolore Elettra si concede intera: «La mia ostinazione/sarà considerata una follia,/ma il mio dolore non avrà mai quiete,/né fine il mio lamento».

Per l’Elettra di Sofocle sovrano è il riconoscimento assoluto della giustizia che, una volta offesa, violata con l’assassinio di Agamennone perpetrato da Egisto e Clitennestra, ha da esser risarcita e restituita al suo inflessibile equilibrio: «Se chi muore giace abbandonato/-polvere e nulla-/e non avrà l’omicida uguale morte,/dal cuore dell’uomo svanirà/e timore di dio e senso di colpa». Ma far giustizia non estingue il male del mondo che tuttavia procede in un susseguirsi fatale di crimini. Fatale ovvero superiore ad ogni possibilità di libera decisione umana: «Vivono quelli che stanno sotto terra: i morti da gran tempo fanno scorrere il sangue di coloro che li uccisero», recita il Coro al momento in cui Oreste sopprime la propria madre e vendica la morte di suo padre Agamennone.

Nel perdurante dolore e nel permanente lutto si consuma ogni margine di libertà che l’uomo possa ottenere a sé stesso. Emancipazione dal dolore varrebbe affermazione di libertà, appunto, comporterebbe piena acquisizione di dignità: «in una esistenza tutta governata dal potere del fato in che consiste la dignità umana?» si chiede Cantoni, e considera come nell’Elettra sofoclea Oreste «è raffigurato come l’eroe giovane e ardimentoso che ristabilisce l’ordine e ripara le sciagure della casa avita. Oltre l’orrore del matricidio si leva la fede nelle leggi morali che reggono l’esistenza e non consentono che si commetta impunemente ingiustizia». E constata che l’eroe di Sofocle «pur non risolvendo l’enigma del destino, pur annientando la propria felicità terrena, si eleva a vera grandezza umana e dice ‘sì’ alla realtà». Fissa il suo tragico destino, accetta il dolore, che annienta ogni felicità, lo assume come integralmente costitutivo dell’esistenza umana e vive nella consapevolezza che essa è priva di libertà.