Imparare ad andare in bici a 33 anni, dopo una vita passata a prendere il bus o, semplicemente, a camminare. E’ successo a Laura. Originaria del Camerun e trasferitasi in Italia, Laura in bici non ci era mai andata. «Salire sul sellino? La mia prima volta è arrivata all’inizio di questa estate, e ovviamente la paura è stata tanta. Per fortuna che accanto a me c’era Monica, una volontaria che mi ha insegnato a pedalare e a non cadere». Quella di Laura non è una storia isolata. Sono tante le donne migranti che approdano in Italia senza essere mai andate in bici, e che proprio in Italia imparano a pedalare.

Diversi i motivi. Questioni economiche, ed è proprio il suo caso, nata in una famiglia camerunense in ristrettezze economiche tali da impedire l’acquisto di una bicicletta. «In casa c’erano spese più importanti a cui fare fronte, dal cibo alla scuola», racconta. Ma per molte altre donne, arrivate in Italia da parti del mondo differenti, la bicicletta è stata qualcosa che, non apparteneva – o non doveva appartenere – al genere femminile.

E COSI’ LE DUE RUOTE «EGUALITARIE e livellatrici», come furono definite al convegno femminista di Parigi del 1896, sono state per loro stata una vera scoperta che, dicono, le ha liberate in tutti i sensi. «Per me la bicicletta è stata qualcosa di bellissimo. Prima di tutto perché ho frequentato un corso che mi ha insegnato a pedalare in città, e per una volta ho fatto qualcosa per me stessa e non solo per la mia famiglia», spiega Sara, 49 anni. E’ in Italia da meno di due anni dopo avere lasciato con la famiglia – marito e quattro figli – la Siria avvolta dalle fiamme della guerra. Sara la bici nel suo paese non l’aveva mai toccata: «Una questione culturale, i maschi ci andavano e le donne no. Era questa la nostra normalità».

MA ORA, SPIEGA ILLUMINANDOSI in un inglese frammezzato a qualche parola di italiano, «I love it so much, mi sento libera». Laura e Sara, i nomi sono di fantasia su richiesta delle interessate, hanno imparato ad andare in bicicletta a Bologna, frequentando un corso pensato per donne come loro, impegnate in percorsi migratori e di integrazione. E due giorni fa hanno festeggiato, assieme ad altre venti «allieve» e compagne, la fine del loro apprendistato partecipando ad una biciclettata cittadina.

«L’IDEA CI E’ VENUTA ORMAI ANNI FA guardandoci attorno – racconta Chiara Aliverti di Salvaciclisti Bologna – ci siamo chieste perché c’erano tanti migranti in sella, e praticamente nessuna donna. Così abbiamo creato un percorso di apprendimento che ci ha dato tante soddisfazioni». Finanziato dal Comune di Bologna attraverso fondi europei, il progetto si chiama Bici libera tutte e ha messo assieme associazioni che si occupano attivamente dei diritti delle donne migranti, come l’ong Cospe e l’associazione Mondo Donna. A tutte le allieve è stata donata a fine corso una bicicletta accessoriata di tutto punto, «per metterle davvero in condizione di cambiare il loro modo di muoversi e vivere la città».

CORSI SIMILI A QUELLO BOLOGNESE esistono anche altrove, ma l’offerta sembra ancora limitata. C’è una solida tradizione in Trentino Alto-Adige, così come lungo la via Emilia, complici anche il territorio pianeggiante e le città non troppo grandi e a misura di ciclista. Negli anni scorsi ci sono stati percorsi di insegnamento per donne migranti anche a Udine e a Cremona, mentre nel 2016 è stato organizzato un corso anche a Milano, e l’idea sarà rilanciata nei prossimi mesi da Legambiente Lombardia.

UNA DELLE ALLIEVE DEL CORSO MILANESE del 2016 è stata Reem, signora egiziana che nel suo paese la bici non l’aveva mai toccata: «Per noi può risultare rischioso perché alcuni uomini potrebbero molestarci, per questo posso capire che le ragazze in Egitto abbiano ancora paura. Per fortuna la mentalità sta cambiando, sopratutto nelle grandi città, dove le donne vanno anche in moto. Ma sopratutto nel sud del paese c’è ancora molto da fare».
Nulla di cui meravigliarsi, ragiona il prof essore dell’Università di Urbino Stefano Pivato, autore per il Mulino del libro Storia sociale della bicicletta. «Mentre nel mondo anglosassone la bicicletta è stata rivendicata dai movimenti femministi già a fine 800 – spiega Pivato – in Italia le cose sono andate diversamente fino a non molto tempo fa. Se pensiamo che all’ inizio del secolo scorso ai preti era vietato andare in bici, figuriamoci quale atteggiamento c’era verso le donne. Sulla bicicletta, simbolo di modernità, il sacerdote non poteva andarci perché poco decoroso e perché scomponeva la veste. Per lui era espressamente vietato, per la donna non se ne parlava nemmeno, essendo qualcosa di indicibile e impensabile. Ma ancora prima che un problema religioso, legato al mondo cattolico, questo atteggiamento è stato proprio del pensiero maschile. Anche perché storicamente per una donna la premessa per andare in bici era quella del togliersi il rigido corsetto e indossare il reggiseno».

LE PROGETTISTE DEI CORSI PER INSEGNARE alle donne migranti ad andare in bicicletta non si preoccupano solo della parte tecnica, ma anche e sopratutto di quella culturale. «Organizziamo corsi da 10 anni e non è mai una cosa semplice – spiega Luana Marangoni della Fiab di Modena, la Federazione italiana ambiente e bicicletta – per ogni alunna serve almeno una volontaria per il sostegno durante le prime lezioni, parliamo proprio della necessità di avere accanto una persona formata che non ti faccia cadere e sappia cosa e come insegnarti. Ma c’è anche il servizio di baby sitting da predisporre, perché senza qualcuno che si occupi dei loro bimbi molte donne proprio non potrebbero venire. Per fortuna abbiamo fatto rete e l’Arci ci aiuta».

I MOTIVI CHE SPINGONO QUESTE DONNE a scegliere di imparare ad andare in bici? Per Marangoni tutto si lega alla ricerca di autonomia personale. «Da noi si rivolgono donne che spesso hanno bambini da accudire, e che hanno bisogno di muoversi velocemente e senza auto, che non possiedono nemmeno. Una signora qualche anno fa è venuta da noi perché, ci ha raccontato, aveva trovato un lavoro a sei chilometri da casa e senza bicicletta non ci sarebbe mai arrivata in tempi ragionevoli. Ovvio, qui si apre il grande tema dei mezzi pubblici, che nemmeno a Modena connettono tutte le parti della città. Bisogna fare di più».

AUTONOMIA, LIBERTA’, LAVORO. Nadia, 48 anni, è arrivata tempo fa in Italia dal Marocco per ricongiungersi al marito che aveva trovato un impiego a Bologna. «A quasi 50 anni – spiega – ho sentito il bisogno di usare la bici. Per me è stato sempre un sogno, la bicicletta mi è sempre piaciuta, i miei figli e mio marito la usavano e così ho deciso finalmente di farlo anche io». Ma quello che ha spinto Nadia a imparare davvero sono state le necessità lavorative. «Faccio la collaboratrice domestica e a inizio lockdown i miei datori di lavoro mi hanno chiesto di non prendere più il bus per paura di contagi. Andare da loro a piedi avrebbe richiesto troppo tempo, l’unica soluzione per me è stata la bici». Risultato? «Se dovessi dire cos’è per me la bicicletta potrei spiegarlo solo in un modo: è una sfida che mi sono imposta, e ora è una conquista grande, che mi accompagna sempre».