Il mestiere della ciclista è gramo. È oggetto di discriminazioni e di pregiudizi, perché a capo delle organizzazioni ufficiali e degli sponsor ci sono gli uomini. La storia del ciclismo femminile è stata scritta dai maschi, l’interpretazione, la visione e la descrizione è tutta al maschile, ieri come oggi. Antonella Stelitano della Società italiana di storia dello sport, pone riparo a una falla documentaristica, andando alle radici del rapporto liberatorio e rivoluzionario che c’è stato tra le due ruote e le donne, lo fa con un libro, Donne in bicicletta. Una finestra sulla storia del ciclismo femminile in Italia (ediciclo), che affronta la tematica sociale, politica ed economica da un punto di vista femminile, perché il ciclismo è « una specialità conosciuta e studiata prevalentemente al maschile» scrive Angela Teja nella presentazione.

L’autrice parte dall’ostilità nei confronti delle prime donne che sul finire dell’800 si cimentarono con la bicicletta e arriva fino a oggi. Un excursus, che diventa voce unanime contro le donne in bicicletta, dal congresso medico italiano del 1897, dove gli uomini di scienza sostenevano che «il pedale poteva provocare la deformità del piede» fino alla Gazzetta Ciclistica che denuncia ai propri lettori come le donne in bicicletta «si mostrano senza vergogna per la città» giacché era consentito loro di andare in bicicletta solo nelle zone agresti. E sui tandem di inizio ‘900, le donne che pedalavano con i propri mariti per le gite fuori porta, dovevano stare dietro o davanti? Il dibattito si infervora e la conclusione è che dovevano occupare il sellino anteriore, per non mostrare il fondoschiena a sguardi indiscreti e scatenare le reazioni dei perbenisti.

Biciclette partigiane

A rompere il ghiaccio per passare dal diletto cicloturistico alle gare fu Lina Cavalieri, una delle attrici e cantanti liriche più famose nei primi anni del ‘900, che sin dal 1893 si cimentava nelle gare ciclistiche. Vinse la corsa a tappe Roma-Torino. La sua figura testimonia lo spirito rivoluzionario con cui le donne si avvicinarono alla bicicletta in quegli anni. Una spinta ulteriore sulla via dell’emancipazione, venne dalle donne lavoratrici che non esitarono a far ricorso alla bicicletta negli spostamenti casa-fabbrica, in fondo a differenza del cavallo la bici non aveva bisogno di accudimento e di cibo.

Il rapporto tra le donne e la bicicletta si consolida durante la Resistenza, perché le donne sulle due ruote, che portano vivande ai partigiani e materiale di propaganda contro il fascismo, destano meno sospetto tra le pattuglie nazifasciste presenti nelle città.

Cicliste operaie

Sul piano agonistico una svolta nel ciclismo femminile si ebbe nel 1961, quando l’Italia ospita i mondiali di ciclismo. Le donne che gareggiano in quei primi anni del boom economico vengono dalla campagna, tra loro Paola Scotti, prima tesserata dell’Unione velocipedistica italiana, oggi Uci (Unione ciclistica italiana), altre sono vivandiere, sarte, stiratrici come le gemelle Mauro di Rapallo, dette le Kessler del ciclismo.

Il libro di Antonella Stelitano ha il merito di riportare agli onori le cicliste che hanno vinto le gare più prestigiose a livello nazionale e internazionale, rimaste sconosciute al grande pubblico. Si tratta di donne che cercavano di conciliare il lavoro con gli allenamenti tra i mille pregiudizi della società. Tra loro figurano Giuditta Longari, che lavorava in una fabbrica di lampadari a Milano e il 2 agosto del 1964 vinse il tricolore, e come premio una sontuosa camera da letto, segno che il loro destino era di ripiegare sulla casa e mettere su famiglia. Inoltre tra le cicliste che andavano forte in quegli anni Maria Cressari, barista a Brescia, Elisabetta Maffeis, magazziniera a Bergamo, Edy Noto, operaia in un cotonificio a Lomazzo, in provincia di Como. Le più forti arrotondavano gli stipendi percependo 100 o 200 mila lire di ingaggio all’anno e in caso di matrimonio ricevevano in regalo dagli sponsor la camera da letto o il completo di elettrodomestici. Per allenarsi e gareggiare, dovevano avere il consenso dei mariti o dei fidanzati, quasi sempre ex ciclisti o allenatori. Nel 1976 il titolo nazionale fu conquistato da Bruna Cancelli, seguita da Patrizia Cassani e Rita Coden. In quegli anni il ciclismo femminile parlava padano, mentre al sud era inesistente.

La svolta mondiale

Negli anni ‘80 il ciclismo femminile si arricchisce del Giro delle Regioni d’Italia, promosso da Vc Donna, Uisp e Uci, che si svolge per la prima volta nel 1981. In quegli anni a segnare la svolta fu Maria Caninis, che prima di passare al ciclismo aveva conseguito vittorie significative nell’atletica e nello sci di fondo. Sul finire della carriera all’età di 32 anni, decise di darsi una chance con il ciclismo, aprì una stagione di vittorie internazionali tra le quali nel 1985 e nel 1986 il Tour de France femminile, ricevendo gli elogi di Bernard Hinault. Caninis vinse nel 1988 anche il primo Giro d’Italia femminile e si piazzò al quinto posto alle olimpiadi di Los Angeles nel 1996. In quel decennio si misero in evidenza anche Luperini, Cappellotto e Belluti.
Negli anni ‘90 esplose il fenomeno mountain bike e le gare con Bmx, ma le medaglie arrivarono dal cross-country con Paola Pezzo, oro ai mondiali del 1993 e 1997 e bronzo nel 1999 e nel 2000. Nel 2017 sono stati introdotti per la prima volta ai mondiali di Hong Kong le gare femminili su pista, mentre quelle maschili si disputano dal 1995.

Oggi chi vince il Giro d’Italia femminile, percepisce un premio tra i 600 e gli 800 euro e chi vince la Coppa del Mondo poco più di mille euro. Gli uomini più di un milione, sponsor compresi.

Contro i tabù

Donne in bicicletta, ci conduce anche in giro per il mondo: a Baghdad le donne hanno rotto il tabù della bicicletta, in Egitto si sono organizzate con Go Bike, mentre a Damasco è sorta Yalla let’s bike. Il documentario Afghan cycles realizzato nel 2018 dalla regista americana Sarah Menzies ci informa delle donne in bicicletta in Afghanistan, e in Germania Bikegees organizza corsi per le donne rifugiate per imparare ad andare in bicicletta.

Errata corrige

Per un refuso, nella prima versione dell’articolo il sommario riportava in modo errato il nome dell’autrice del libro, che si chiama Antonella e non Antonietta.