Fra i volti che popolavano i blockbuster degli anni Settanta, quello di Omar Sharif era uno dei più amati. Lo si trovava sovente in compagnia di pendagli da forca come Telly Savalas o Harry Andrews. Lui, emissario dell’eleganza alessandrina, era affiancato dalla truppa degli apolidi inglesi (Anthony Quayle, Tom Courtenay e, ovviamente, Peter O’Toole), migranti fra coproduzioni improbabili organizzate tra Europa e vecchia Hollywood.

 

 

 

Sharif portava con sé il vento di terre lontane, un’idea di (medio)oriente facile da immaginare come incastonata fra un Martini Dry, una corsa in Porsche in Costa Azzurra e una mistero da sciogliere all’ombra delle piramidi. Elegantissimo comprimario, sempre circondato da un alone di insopprimibile malinconia, ha diviso lo schermo con veterani in cerca di ricollocazione come Gregory Peck e Anthony Quinn. Era lui, l’ingrediente in più di un cinema che si voleva ancora più grande del mondo, ma che era giunto un po’ faticosamente al capolinea.

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Sharif sembrava come saperlo, ma si prestava al gioco. Con una sapienza tale, che la sua immagine è sopravvissuta al suo progressivo allontanarsi dalle scene. E quando tornava, tornava esattamente per rimettere in scena il cinema di una volta, quello che aveva fatto lui. Basti pensare al 13° guerriero di John McTiernan, travagliatissima produzione crichtoniana, nella quale divide lo schermo con Antonio Banderas, oppure a Hidalgo – Oceano di fuoco, ancora un ruolo di sceicco. Un cinema, quello di Sharif, che si sognava sempre bigger than life. Perché sorprendersi che è lui il narratore di 10.000 A.C. di Roland Emmerich?

 

Sharif ha diviso il set non solo con una galleria di facce oggi assolutamente impensabile ma soprattutto è stato diretto da un gotha di nomi che comprende hollywoodiani in cerca di ricollocazione (Anatole Litvak, John Frankenheimer dal cui Cavalieri selvaggi sembra quasi discendere Hidalgo…), autori che non erano riconosciuti come tali (Blake Edwards su tutti) e professionisti impeccabili come Terence Young, hollywoodiani in esilio (Bob Rafelson), altri come Ivan Passer perennemente sospesi fra più mondi.

 

 

 

E, caso più unico che raro, interpreta bene due volte Funny Girl, diretto una volta da William Wyler e l’altra da Herbert Ross. Raramente un attore ha incarnato più di Omar Sharif il momento stesso della sua massima esposizione divistica. Sharif era l’immagine stessa di Omar Shar divo. Nell’arco di tempo che da Lawrence d’Arabia conduce giunge alle soglie degli anni Ottanta, Sharif incarna un’idea di cinema di glamour assolutamente fuori dal tempo; una sorta di resistenza renitente a un cinema che cambiava, laddove nel suo mondo, popolato di emiri e stregoni, seduttori e scassinatori, avventurieri e principi, il tempo si presentava cristallizzato e impenetrabile.

 

 

Kabir Bedi è stato l’unico erede credibile al trono di Omar Sharif. E non conta che lui fosse indiano e l’altro egiziano. Ad accomunarli era questa idea di alterità «orientale», rigorosamente transnazionale, che sembrava come strapparli a una connotazione etnica precisa. Come fissati per sempre nell’immacolato perimetro del jet set internazionale. Per avere un’idea di questa bolla temporale, basta dare un’occhiata ad Ashanti, l’ultima delle coproduzioni fallimentari hollywoodiane, distribuita negli ultimi barlumi degli anni Settanta, e popolata come al solito da inglesi in trasferta e hollywoodiani in cerca di un ultimo posto al sole. Con Omar Sharif scompare definitivamente tutta un’idea di coproduzione e di cinema. Resta l’elegante malinconia di un crepuscolo di nome Omar Sharif, nato nel 1942 con il nome di Michel Shalhoub.