Leila, simbolo del dolore di Gaza
Gaza I genitori di Leila Ghandur, la bimba di otto mesi soffocata lunedì dai gas lacrimogeni, negano di aver portato la figlia sotto le barriere con Israele. Ieri, giorno della Nakba, altri due palestinesi uccisi dall'esercito israeliano mentre Gaza piange ancora le 60 vittime della strage di lunedì
Gaza I genitori di Leila Ghandur, la bimba di otto mesi soffocata lunedì dai gas lacrimogeni, negano di aver portato la figlia sotto le barriere con Israele. Ieri, giorno della Nakba, altri due palestinesi uccisi dall'esercito israeliano mentre Gaza piange ancora le 60 vittime della strage di lunedì
Il dolore muto di Anwar Ghandur contrasta con il clamore e lo sdegno che ha suscitato nel mondo la morte della figlioletta di otto mesi, Leila, soffocata lunedì dai gas lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani. Sotto la tenda del lutto nel quartiere di Zeitun, a Gaza city, siedono parenti e amici. Si alzano tutti in piedi per stringere la mano a chi porta vicinanza e condoglianze. Un ragazzo serve ai presenti caffè amaro. Anwar ha 27 anni e il volto di un adolescente. Sua moglie Maryam ne ha appena 19. «È stato un colpo duro, per me e soprattutto per mia moglie» dice «già un anno fa avevamo perduto il nostro primo bimbo, Salim, di un anno. La sera si era addormentato tranquillo ma non si è più svegliato, è morto nel sonno». Arrivano altre persone, tra queste Jamal Khudari, fino a qualche anno fa presidente del Comitato contro l’assedio di Gaza. Anwar va a salutarlo. Una stretta di mano veloce, Khudari sussurra qualche parola di conforto. Il giovane padre torna da noi. «Maryam aveva ritrovato la serenità quando ha partorito Leila. Abbiamo perduto anche lei e mia moglie è devastata». La giovane mamma resta in casa, non solo per la tradizione che separa i sessi nelle occasioni pubbliche di lutto. Semplicemente non ce la fa a parlare, ci spiega Anwar.
Sui social infuria lo scontro tra chi denuncia l’orribile morte di una bimba a causa dei lacrimogeni e chi difende Israele sempre e comunque, contro ogni evidenza, non mancando di accusare i Ghandur di imprudenza se non addirittura di aver lucidamente portato la figlia fino alle barriere di demarcazione, sotto il fuoco dei soldati isreliani e nel fumo dei lacrimogeni per provocarne la morte e mettere sotto accusa Israele. Anwar non sa di questa insana battaglia in internet. Le ultime ore le ha passate a piangere Leila e a confortare la moglie. «La mia bimba era molto lontana dalle barriere» ci racconta «era con la mamma, la nonna e la zia in una tenda (ad est di Shajayie,ndr) dell’accampamento». Tutto è accaduto in pochi attimi. «Mia moglie – prosegue – mi ha detto che ad un certo punto sopra ed intorno alla tenda sono caduti diversi candelotti lacrimogeni sganciati da un drone israeliano. La tenda è stata avvolta in una nuvola di fumo, sono scappate ma Leila nel frattempo aveva inalato molto gas. Ha perduto i sensi subito, all’ospedale è arrivata morta». Per Israele e la descrizione che ne danno molti mezzi d’informazione gli accampamenti di tende eretti per la “Grande Marcia del Ritorno” cominciata il 30 marzo nella fascia orientale di Gaza non sarebbero altro che delle “basi di lancio” di attacchi alle barriere e di preparazione di attentati. Piuttosto sono punti di riunione per migliaia di civili, per le famiglie, situati a parecchie centinaia di metri dalle recinzioni. In alcuni di essi spesso organizzati momenti di intrattenimento e dibattiti.
Ciò che non viene riferito a sufficienza è che l’esercito israeliano ha a disposizione nuovi “mezzi di dispersione” delle manifestazioni, come i cannoncini che sparano in pochi secondi decine di candelotti a grande distanza e anche droni che dall’alto sganciano i lacrimogeni sui manifestanti che si avvicinano alle barriere e anche su quelli fermi molto più indietro. Proprio i lacrimogeni sparati da un drone hanno provocato la morte di Leila, secondo il racconto che ci ha fatto il padre. Le autorità di Gaza hanno aperto una indagine per accertare le cause della morte della bimba. Così come quella di altri otto ragazzi, con meno di 16 anni, che figurano tra le 60 vittime della strage di lunedì.
L’accampamento di Abu Safieh a Est di Jabaliya ieri ha cominciato ad affollarsi dopo le 15. E così tutti gli altri lungo la fascia orientale di Gaza. Si diceva che dopo il massacro avvenuto il giorno prima, i palestinesi sarebbero rimasti a casa, per paura e per il lutto. Ma il 15 maggio, il giorno della Nakba, la ”catastrofe” del 1948 e i suoi profughi ancora in esilio e ai quali Israele non permette il ritorno, sono motivi che più di altri spingono i palestinesi in qualsiasi punto del pianeta a ricordare e a protestare. «Gli israeliani dovranno ucciderci tutti ma non ci arrendiamo, non ci faranno dimenticare i nostri diritti», ci dice Husan al Sheikh, parente di una delle vittime di lunedì. «Siamo qui per dire che non accetteremo un’altra Nakba», aggiunge. Il fuoco dei soldati israeliani ieri ha fatto nuove vittime: un uomo di 51 anni e un giovane. I feriti sono stati oltre 250.
Ghassan Abu Sitta è un chirurgo ortopedico di origine palestinese che lavora nel più prestigioso e meglio attrezzato degli ospedali libanesi, quello che fa capo all’università americana. A fine mese guadagna quanto gli stipendi messi insieme di una dozzina di colleghi di Gaza. Però non dimentica la sua terra e tutte le volte che può corre a Gaza da volontario. «Questa è la mia gente, ogni palestinese ha il dovere di dare un contributo, siamo ad un momento di svolta. Israele e gli Usa vogliono cancellare la questione palestinese». In questi giorni Abu Sitta è impegnato all’ospedale al Awda nel nord di Gaza. «L’afflusso di feriti è incessante» ci dice il chirurgo «e il tipo di ferite mi sconvolge, perché questi proiettili si spezzano quando entrano nel corpo e i frammenti corrono verso punti diversi distruggendo vasi sanguigni, muscoli, ossa. Ad un paziente ho estretto pezzi di uno stesso proettile nelle gambe, nei genitali e nell’addome. Con i miei colleghi facciamo il possibile ma tanti di questi feriti saranno disabili per sempre». Mentre torniamo verso Gaza city, scorgiamo nelle strade più affollate alcuni giovani con una gamba fasciata che avanzano lentamente aiutondosi con le stampelle. Altri con un braccio fasciato e legato al collo. Ne contiamo nove fino all’arrivo. Sono solo una frazione delle migliaia di feriti di queste ultime settimane. I funerali che ieri hanno attraversato Gaza si sono portati via per sempre di giovani e ragazzi, i disabili ci ricorderanno per anni l’orrore di questi giorni.
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