Alle sette della mattina il politico dei Fratelli musulmani Gehad al-Haddad ci avvisa con una telefonata che nella notte «c’è stata una strage». L’ultimatum di Sisi agli islamisti per «allinearsi» al nuovo corso politico è scaduto in anticipo. E la scena su via Nassr è devastante. L’eco dei canti che abbiamo descritto venerdì sembrano cancellati nell’odore acre di lacrimogeni che ancora provocano effetti evidenti a occhi e polmoni. Si vedono ovunque i segni dei gas lanciati dalla polizia. Alla nostra vista si sono aperte le scene di una strage di cui ancora non si conosce la portata. Le fonti non concordano e i Fratelli musulmani insieme alla televisione del Qatar Al-Jazeera parlano di oltre 100 morti e migliaia di feriti, mentre il ministero della Sanità (la fonte più attendibile in questi casi) assicura che sono 65 morti al Cairo e nove ad Alessandria. «Hanno sparato i Fratelli musulmani», comincia Abdel. A quel punto si avvicina un sostenitore della Fratellanza che gli chiede: «Hai forse ricevuto 500 ghinee (60 euro, ndr) dalla polizia per dire questo?». Abdel è il primo di vari uomini in borghese che ci fermano sulla strada che percorriamo verso la moschea di Rabaa. Anche in questo modo agiscono gli agenti, tentando di distorcere la verità. Forniscono una contro interpretazione alle accuse dei Fratelli musulmani in merito a chi abbia innescato gli scontri. Per ogni evento sanguinoso in Egitto si sta sviluppando una sorta di doppia narrativa. Tant’è che, secondo il procuratore generale nominato dal presidente ad interim, i pro-Morsi avrebbero sparato sulla polizia che impediva loro di raggiungere il ponte 6 ottobre. Tentiamo invece di raccogliere testimonianze dirette che ci permetteranno qui in parte di ricostruire i momenti salienti e le responsabilità di un massacro della stessa portata delle stragi di Maspiro (ottobre 2011), Mohammed Mahmoud (novembre 2011) e Port Said (febbraio 2012).
La versione della Fratellanza
A Rabaa el Adaweya i più deboli sono i sostenitori dei Fratelli musulmani che non hanno dalla loro parte né la polizia né l’esercito. Ci sono pietre dovunque su via Nassr: segno di una sassaiola notturna continua. Il gas impedisce ancora di respirare. Decine sono le motociclette e le autovetture incendiate. Secondo gli islamisti, sono il segno dell’avanzamento delle forze dell’ordine verso Rabaa al Adaweya. E così per protezione, gli affiliati dei Fratelli musulmani (ai quali si sono aggiunti una parte dei salafiti del partito al-Watan e delle gamaat al islameya, formando la Coalizione nazionale per la legittimità) hanno costruito una serie di basse mura di difesa. Che si tratti di una protezione rudimentale dagli attacchi della polizia lo dimostra il fatto che queste linee di difesa sono costruite semplicemente da mattoni, divelti dai marciapiedi, che circondano il monumento commemorativo ad Anwar al Sadat. Un giovane, Mohammed, cerca di raccontarci la sua versione: «La polizia ha sparato. Insieme agli agenti hanno agito criminali (baltagya), ingaggiati dal Partito nazionale democratico. Hanno puntato su gente che pregava alle 3 e 30 della notte. L’esercito vuole trasformare l’Egitto in una nuova Siria». A questo punto si avvicina un uomo che spiega la versione contraria, favorevole alla polizia, aggiungendo che i Fratelli musulmani si sono avvicinati al ponte dove è avvenuta la carneficina, armati di tutto punto. Per gli islamisti si riproduce una sorta di terrorismo di stato che li ha tenuti per anni in prigione e ora agisce per prevenirne la partecipazione politica futura e cancellarne la legittimità elettorale. «Quando la scelta è tra la violenza dello stato contro uomini indifesi, qualsiasi sia la narrativa dominante o la difesa del regime, noi siamo con le vittime. Non vogliamo essere torturati di nuovo, siamo qui per costruire la democrazia dei diritti», chiosa Mohammed Okda, politico salafita del Watan.
Nell’ospedale da campo di Rabaa
«A mezzanotte sono arrivati i feriti, raggiunti da colpi di arma da fuoco o svenuti per aver respirato gas lacrimogeni: il loro numero è cresciuto con il tempo»: ci spiega il chirurgo Mustafa Ismail. «I morti avevano colpi in testa, alle gambe e all’addome. Alcuni di loro sono stati trasferiti in altri ospedali, qui abbiamo visto 40 cadaveri». I morti sono stati portati nella mattina di ieri all’obitorio di Sayeda Zeinab, dove di solito vengono raccolti i cadaveri di tutti gli scontri. Solo una visita in quelle sale potrebbe dare una risposta sul numero esatto delle vittime. «Non avevano intenzione di avanzare, si trovavano all’altezza dell’Università di Al Azhar, alcuni feriti ci hanno raccontato di aver visto soldati sparare dai ponti». Mustafa, giovane ferito di 19 anni, ci racconta di essersi fratturato le gambe cercando di fuggire al lancio di gas lacrimogeni. Il medico Omar Mahfuz mostra una delle cartucce di gas, lanciate dalla polizia, si legge «Mm riot Cs smoke». Un altro medico Islmail Hashash conferma che «chi ha sparato lo ha fatto per uccidere». Il dottore ha una lunga esperienza in ospedali da campo, anche in Siria, e dice di non aver mai assistito a scene del genere. Poco più avanti entriamo nell’ospedale Tamim. Qui i feriti sono decine e decine, riempiono tre piani del nosocomio. Alcuni molto gravi, sono intubati e non coscienti, circondati dai loro familiari. Vediamo per la maggior parte uomini tra i 27 e i 38 anni, hanno subito gravi ferite all’addome e alla spina dorsale.
La narrativa della Fratellanza
«Questo regime è brutale e oppressivo. Siamo qui solo per la legittimità e per difendere il nostro voto», dice Tarek El-Sayed, un altro testimone della strage. «Non c’è un solo giornalista egiziano a raccontare il massacro, qui non c’è né libertà né democrazia», urla una donna prima che vengano mostrate le immagini del massacro durante la conferenza stampa della Fratellanza, nel minuscolo centro giornalistico, allestito alle spalle di Rabaa. Abdel è convinto che le responsabilità nelle violenze dagli stupri di piazza Tahrir alla morte di uno studente americano ad Alessandria non siano in nessun caso opera dei Fratelli musulmani, mentre la Sicurezza di stato vorrebbe sgomberare Rabaa con ogni mezzo. Effettivamente, il ministro dell’Interno Mohammed Ibrahim intende intervenire per sgomberare la piazza, anche se non ha reso noto quando. Ibrahim ha anche annunciato che sarà ricostituito il Dipartimento per il controllo dell’attività religiosa e il terrorismo all’interno del ministero dell’Interno. Per questo è stato anche convocato il Consiglio nazionale di difesa egiziano che si riunirà nelle prossime ore per discutere della situazione della sicurezza in Egitto. Critiche per le violenze e a favore dell’avvio di indagini indipendenti si sono espressi lo sheykh di Al Azhar Ahmed El Tayeb e anche il vice-presidente Mohammed el Baradei. Mentre reazioni di condanna per la strage sono giunte dai ministri degli Esteri di Germania, Gran Bretagna e Italia.
Iniziano a scorrere le immagini, proposte dalla Fratellanza, e riprendono le urla contro l’esercito e a favore degli islamisti nella sala. Si vedono decine di corpi, coperti da lenzuola bianche. Alla vista di quei cadaveri e dopo il racconto agghiacciante di un politico, molti piangono. Il clima è cambiato e cresce tristezza e rassegnazione. Per questo una volta stabilite le responsabilità dell’esercito nell’uso della violenza, è utile aggiungere che i Fratelli hanno fallito l’occasione di un anno di governo perché si sono comportati da politici di destra, quando l’Egitto ha un bisogno vitale di giustizia sociale. Per questo, un gruppo di giovani poco lontano da Rabaa è già pronto a scegliere una terza via: piazza Ittihadeya (il palazzo presidenziale). Lì si raccoglie chi non è né con Morsi né con l’esercito, ma per ora è un nugolo di manifestanti, motivati dal poeta Ahmed Foad Nigm.