Appena un mese fa l’intervista di Giuseppe Conte al Paìs sarebbe passata quasi inosservata. Cos’altro potrebbe rispondere un premier accusato di essere stato spodestato dal suo vice se non che «se si crede che nel governo comandi lui è un’illusione ottica»? Oggi l’effetto di quella frasetta è ben diverso, perché le parole seguono i fatti e l’orgogliosa rivendicazione di Conte s’incastona in una raffica di gesti concreti quasi studiati per dimostrare che il ministro degli Interni conta sì, ma non troppo. Chiacchiere e distintivo o giù di lì.

QUELLA DI CONTE, INVECE, non è solo chiacchiera. Ieri, per la prima volta, i porti sono stati aperti per i rifugiati salvati in mare. La vendetta di Salvini, il sequestro della Mare Jonio, non basta a nascondere la realtà: a gestire la vicenda è stato per la prima volta e senza alcuna finzione diplomatica palazzo Chigi. Il giorno prima, lo stesso Conte aveva liquidato la sgangherata offensiva sui cannabis shop con uno sprezzante: «La questione non è in agenda». Il giorno precedente aveva messo il Ruggente con le spalle al muro scegliendo un atto di forza, il dimissionamento di Siri, che Salvini avrebbe potuto impedire solo portando la sfida alle estreme conseguenze e negando la fiducia a Conte.

NELLO SCATTO DI ORGOGLIO del premier, che si trova di fatto oggi a essere molto più che non Di Maio il vero antagonista di Salvini, può avere pesato l’insistenza con la quale Mattarella gli ha ricordato in numerose occasioni che il presidente del consiglio gode di prerogative costituzionali e ha responsabilità diverse da quelle di un vigile. Ma soprattutto ha contato la chiamata alle armi di un M5S deciso a tentare la controffensiva e consapevole che a fare la differenza sarebbe stato proprio il ruolo del capo del governo. Dopo essere stato prima notaio e poi arbitro, Giuseppe Conte si è così trasformato a tutti gli effetti nel premier dell’M5S.

IL CONTRATTACCO DEI 5S sin qui ha avuto pieno successo. La campagna elettorale si è snodata sotto segno opposto a quello che si aspettava la Lega. Il partito di Salvini si è trovato al centro di un fuoco incrociato, sul piano giudiziario e su quello politico-culturale, e il suo stato maggiore è convinto che non si tratti di una coincidenza. Giorgetti lo dice esplicitamente: «Quando la Lega va particolarmente bene succedono sempre cose strane. Non mi riferisco solo alle inchieste ma anche alle polemiche su fascismo e antifascismo».

Su entrambi i fronti i 5S sono stati i primi a bersagliare i soci. Il perno dell’operazione, che mira non a demonizzare Salvini, strategia comunicativa fallimentare e controproducente, ma a ridimensionarlo facendolo apparire con un gigante d’argilla, non può che essere l’inquilino di palazzo Chigi.
Salvini ha palesemente accusato il colpo. Da tre giorni si agita e si dibatte senza riuscire a mettere in piedi una reazione credibile. La strategia delle «cose concrete» è di fatto inconsistente. Ieri, oltre a sfoderare un decreto sicurezza-bis, il ministro degli Interni ha tentato di uscire dall’angolo cercando di coinvolgere Conte e il ministro degli Esteri Moavero nei rimpatri. La risposta, anonima, dei 5S è stata beffarda, quasi insultante: «Non faccia lo gnorri: i rimpatri sono di sua competenza. Il fatto stesso che abbia scritto a Conte e Moavero è una dichiarazione di fallimento».

E’ VERO PERÒ che sino alle elezioni del 26 maggio il leader della Lega non potrebbe comunque azzardare risposte più drastiche. Il momento della verità, quello in cui si capirà chi è davvero il segretario della Lega, arriverà subito dopo quel voto. Salvini ha portato una Lega agonizzante a essere almeno nei sondaggi il primo partito italiano. Ma lo ha fatto giocando su un indubbio talento di propagandista: le sue capacità come uomo politico alle prese con una situazione difficile non sono mai state messe alla prova. Se dopo le europee non riuscirà a riprendere in mano la situazione, anche a costo di sfidare la crisi, potrebbe imboccare la china di un declino ancor più fulmineo di quello di Renzi. Per un leader che scommette tutto sull’immagine di «uomo forte» nulla è più devastante del rivelarsi un bluff.