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Leggende nere per destabilizzare il trono

Leggende nere per destabilizzare il tronoCleopatra VII interpretata da Liz Taylor nel film Cleopatra, 1963, diretto da Joseph L. Mankiewicz

Ellenismo Aneddoti, pettegolezzi, polemiche, accuse infamanti, critica: intellettuali e potere nel mondo greco tra IV e I secolo a.C.: "Le orecchie lunghe di Alessandro Magno" di Federicomaria Muccioli, Carocci editore

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 7 ottobre 2018

Preconcetti tenaci condizionano talvolta lo sguardo sul passato greco-romano. Il mondo greco nei secoli dopo Alessandro Magno, per esempio, riceve un’attenzione scarsa, come fosse una fase di epigoni, poco interessante, incapace di accendere a «egregie cose». Guardando al pubblicato, in libreria, pare quasi che la Grecia antica ci parli solo con l’Odissea o la democrazia ateniese (e qualche tragedia). Non è così, naturalmente. Vero è che molti lavori sull’ellenismo risultano ardui, gravati di dettagli e erudizione, insomma poco amichevoli verso il lettore non specialista, ma è vero pure che l’argomento merita. Altra strada quindi percorre Federicomaria Muccioli, professore a Bologna, con Le orecchie lunghe di Alessandro Magno Satira del potere nel mondo greco (IV-I secolo a.C.) (Carocci «Studi storici», pp. 185, € 19,00). Il libro non parla tanto di burle e scherzi, ma esamina, con scrittura spesso brillante, i modi in cui intellettuali, scrittori, poeti esercitarono la critica o la derisione ai danni dei grandi o piccoli re del vasto mondo ellenistico. Ossia di quei potenti che, tranne poche eccezioni repubblicane (Roma appunto, Cartagine o Rodi, le leghe in Grecia), dominarono la scena da Alessandro alla conquista romana.
La campionatura di episodi considerati è ampia e va oltre quel che normalmente s’intende per «satira». Si discutono anche aneddoti, pettegolezzi più o meno documentati, polemiche, accuse infamanti. Si attinge alle pagine di storici e biografi, alle opere di poeti e poetastri, ma anche a commedie: un materiale di qualità e valore differente, da maneggiare con cautela. Si capisce presto che la letteratura ellenistica non era apolitica, anche se amava ogni tanto esibire spensieratezze erudite. La vicinanza tra potenti e intellettuali (poeti, letterati, filosofi) generava spesso testi di natura, appunto, politica. Le vicende studiate da Muccioli portano verso scenari meno consueti, dalle corti di Antiochia o Alessandria ai regni dell’Asia Minore, e coinvolgono personalità anche importanti ma oggi non particolarmente note, come Demetrio del Falero, Filosseno, e altri.
Di fatto, a parte Alessandro Magno o Dionigi di Siracusa, i protagonisti della politica ellenistica non fanno parte dei repertori più noti di exempla. Ma questi re, celebri o meno, subivano attacchi su ogni aspetto del privato: dai familiari al vestiario, dai gusti alimentari ai passatempi o alle pratiche sessuali. Si capisce che sui tiranni, o sui potenti definiti tali, si formasse già in vita una «leggenda nera» fatta di nefandezze estreme, compresi incesti, parricidi e infanticidi. Ma nel libro le figure di re marchiate dallo stigma dell’indegnità, politica o morale, sono davvero molte. Si incontrano laide sconcezze, esibite mollezze, e anche efferate violenze. La divergenza rispetto al pensiero politico, che teorizzava invece la condizione del re come una «gloriosa servitù», un privilegio riservato solo a pochissimi, capaci di primeggiare in guerra e in politica, non potrebbe essere più forte.
Diventa però interessante capire la possibile origine delle voci anti-potere, e il loro vero obiettivo. Non sempre le critiche, anche feroci, paiono effetto di opposizione politica. Deridere la stazza di un re d’Egitto o svergognare la moglie di un re di Siria non significava necessariamente cercare un governo più giusto. Si voleva forse destabilizzare un trono per cambiare il re, magari in appoggio alle interessate mene di un rivale. E far circolare notizie scabrose su un sovrano di Bitinia o del Ponto poteva non essere innocente umorismo, ma un modo per aiutare una guerra, visto che la delegittimazione dell’avversario funzione sempre, sul fronte interno come su quello esterno. In vari casi la satira ellenistica quindi appare un elemento della politica, che non ha a che vedere con la libertà. E nemmeno con la libertà di parola, anche se qualche voce impertinente venne silenziata in modo brutale. Bastava cogliere un tema della «propaganda», pur controllata dal re, e rovesciarne il segno e il senso. Se il monarca in età ellenistica aveva il dovere etico di essere ricco e generoso, invece di celebrarne le strabocchevoli ricchezze come faceva la poesia cortigiana (Teocrito, per fare un esempio), lo si poteva presentare come un rammollito dedito a ogni eccesso della crapula e a ogni perversione del sesso, come un satrapo gavazzante in una reggia di tipologia Mar-a-Lago. Molti re del mondo ellenistico ricevettero questo trattamento dalla «stampa» avversaria. E anche alcune regine, ovviamente: caso celebre quello di Cleopatra. La propaganda nemica fece dell’ultima regina d’Egitto un’abile seduttrice di generali romani, un’amante di bizzarrie lussuriose. Della «meretrice regina dell’incestuoso Canopo», come la chiamò elegantemente Properzio, si insinuava che volesse rendere Roma schiava di Alessandria. Altro che perle sciolte nell’aceto: la corrotta discendente dei faraoni era presentata come una pericolosa minaccia. Da eliminare con ogni mezzo.
Esibire il degrado dei monarchi ellenistici era compito della propaganda. Ma questo tipo di satira non era (e non solo allora) vincolato alla «verità» di quanto detto, bensì aperto, trattandosi di contesa di potere, alla calunnia, alla diffusione di fake news. Sono meccanismi difficili da riconoscere dopo molti secoli: e una tradizione avversa, anche se fosse unanime, non diviene per questo vera. Del resto, càpita di non comprendere il contesto nemmeno di episodi relativamente famosi. Si racconta che nel terzo secolo a.C. il poeta Sotade commentò in versi le nozze fra il re d’Egitto Tolomeo II e la sorella Arsinoe: invitò infatti il re a «non ficcare il pungolo nel buco sbagliato». Tolomeo non gradì l’impertinente allusione alle nozze incestuose, e Sotade, famigerata linguaccia, fu ucciso. Censura e repressione, certo. Ma che natura aveva il carme che conteneva questo passo? Era una burla? Una satira giullaresca? Una feroce delegittimazione? Un attacco politicamente rilevante? E come circolò? Come si è conservata memoria di un episodio così imbarazzante? Gli «Dei Filadelfi» Tolomeo e Arsinoe risultano essere stati poi celebrati in ogni forma artistica. Non a tutti tali quesiti è possibile rispondere: resta la violenza dell’attacco, e l’analisi di Muccioli è buona guida alla comprensione dell’episodio.
Questi episodi lontani parlano di più se accostati all’esperienza contemporanea: nel libro ciò avviene spesso, e conferisce al testo uno stile non accademico. Vi contribuisce anche qualche spunto «polemico». Quando si narra la crisi del regno di Siria nel 129 a.C. e la rinuncia al controllo dei territori orientali, l’evento è definito una «catastrofe» per l’ellenismo in area mesopotamica. E si prosegue (p. 100): «senz’altro un giudizio che oggi nessuno si sentirebbe di condividere, dato che la parola d’ordine per il periodo in questione è quella dell’interculturalità ovvero dell’acculturazione reciproca (sia pure non simmetrica)». L’analisi storica mostra qui polemicamente i limiti delle ambiguità concettuali proprie del «politicamente corretto». Tanti aneddoti antichi, paradossali o acidi trovano immediata attualità: siamo avvezzi ormai agli «uomini forti», e ben abituati alle prodezze dei cialtroni al potere e alla sbruffoneria istituzionalizzata. Proprio perciò queste polemiche antiche fanno pensare: esse raccontano le denunciate storture dei potenti, e svelano la forza della propaganda svincolata dalla verità, capace di manipolare la massa, e indurla a esaltare o denigrare chiunque, non secondo analisi o bisogni, ma per reazioni primarie. Dietro tutto questo non sta sempre la libertà di pensiero o di parola che ci piace associare all’idea di satira. Talora c’è il «qualunquismo» alla Gioachino Belli: «Li sovrani nun zò tutti compagni? Saranno o un po’ più bbelli o un po’ più bbrutti: ponn’èsse o meno bboni o più ccattivi; ma, articolo magna’, màgneno tutti».

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