Quando ci si occupa di lingue bisogna pensare non solo al presente, ma anche al passato politico e socioculturale che emerge dalla gerarchizzazione linguistica di diversi luoghi e dai processi di affermazione di determinati idiomi e culture rispetto ad altri.
La situazione sociolinguistica dell’arcipelago di Capo Verde, situato nella regione centrale dell’oceano Atlantico, conferma alcuni schemi politici e storici che rispecchiano un passato di sfruttamento coloniale e la necessità di inserimento nelle cartografie internazionali contemporanee.
La lingua capoverdiana, o kriolu kabuverdianu, nasce durante il processo di popolazione delle isole e dalla comunicazione forzata tra coloni portoghesi e popolazioni schiavizzate di diverse zone del continente africano, ed è politicamente oppressa, così come altre manifestazioni culturali sui generis, in quanto associata a condizioni sociali come la povertà, l’analfabetismo, l’oralità e l’informalità.

FINO ALL’INDIPENDENZA, nel 1975, la lingua capoverdiana è stata considerata un dialetto portoghese di statuto socioculturale inferiore, vista l’assenza di struttura grammaticale e la sua caratteristica oralità. Con la lotta anticoloniale per la liberazione, guidata dagli ideali di panafricanismo e dalla necessità di opporsi alla cultura dominante, è emersa la preoccupazione che diversi tratti dell’identità culturale capoverdiana, tra i quali il kriolu e le tradizioni orali, potessero andare smarrite. Da allora, infatti, sono state condotte importanti opere di documentazione e sistematizzazione. L’obiettivo era ufficializzare il kriolu kabuverdianu, che infatti è stato riconosciuto come lingua madre: nel 2019 è stato proclamato patrimonio culturale immateriale. Tra le tante iniziative, quella che ha avuto più successo è stata l’approvazione dell’Alupec, l’alfabeto unificato di base fonetica, nel 2005.

IL QUADRO sociolinguistico attuale continua a essere segnato da una forte diglossia che riflette le relazioni di potere in atto: mentre la lingua madre viene largamente utilizzata in contesti non istituzionali, il portoghese resta l’idioma ufficiale, nonché dell’apparato scolastico. Da questa gerarchia emergono problematiche differenti, come la mancanza di una strutturazione grammaticale, la perdita di vocaboli e di documentazione del capoverdiano, ma anche la difficoltà di apprendimento del portoghese (che non è rappresentato nell’ambiente domestico) e l’esistenza di una barriera linguistica che interessa la maggior parte della popolazione quando si tratta di esercitare i propri diritti.
Chi narra una storia, vi inserisce sempre elementi e punti di vista soggettivi. Così, registrare e trascrivere la tradizione orale permette di salvare dalle insidie del tempo e dall’oblio anche tutto un comparto di tematiche che, essendo indissociabili dagli individui che le «oralizzano», andrebbero altrimenti perse.
In questo senso, un grande lavoro è stato realizzato dal «Departamento de Tradiçoes Orais», in tutte le isole e in collaborazione con le popolazioni locali, proseguito fino alla metà degli anni novanta. L’ultima sistematizzazione, realizzata nel 2001, ha evidenziato l’esistenza di 23 campi e 200 sottocampi di tradizioni orali. All’interno di essi, le letterature originarie assumono la forma di miti, favole, leggende e racconti che riprendono e riformulano caratteristiche della tradizione europea e africana.
A Capo Verde «raccontare storie» faceva parte della vita domestica e comunitaria: si narravano al bóka noti, ovvero al tramonto, perché durante il giorno avrebbero fatto cadere le ciglia del narratore (la spiegazione più comune di questa credenza risiede nel fatto che durante il giorno tutti erano occupati dal lavoro nei campi).

LE STORIE si inverano in kriolu, anche se presentano personaggi e motivi oriundi di altre località; il portoghese appare, spesso, come la lingua che caratterizza situazioni di dominio e i personaggi autoritari, come preti, professori, governatori. In questo senso, le affabulazioni tradizionali traducono e rispecchiano la storia e la sociolinguistica locale.
Il principale ciclo narrativo, «Lobo e Xibinho», è basato su un lupo ingordo, pigro e con un brutto carattere, che finisce sempre per essere ingannato da Xibinho, personaggio che, a seconda delle isole, presenta diversi nomi. In alcune parti dell’arcipelago sono anche comuni insiemi di leggende nelle quali figurano personaggi soprannaturali come streghe, i gogons, le knelinhas e la kapotona.

QUESTI RACCONTI avevano, oltre al mero intrattenimento, la funzionalità specifica di garantire che i bambini restassero vicino a casa durante la notte, dato che l’illuminazione pubblica nell’arcipelago è arrivata molto tardi. Nel vasto repertorio figurano ancora molte varianti che includono personaggi come Brancaflor, comune alla tradizione europea, e perfino Carlo Magno, oltre alla ricorrente apparizione di personaggi biblici, come Nhordés (Dio) e san Pietro.
Imbastire storie era, quindi, una forma di intrattenimento e, allo stesso tempo, rappresentava un accesso all’istruzione. Bambini e adulti condividevano questi momento e, inoltre, la maggior parte delle storie poteva essere narrata da uomini e donne, indifferentemente. Questa capacità affabulatoria era parte integrante anche dei riti funebri: nei sette giorni di veglia al corpo del defunto che seguivano una morte, i presenti restavano all’ingresso della casa raccontando storie.
La narrazione orale era poi presente in alcuni gesti rituali del lavoro di ambito domestico – come sbucciare il mais – mentre nei campi erano più comuni i canti di lavoro. Se, da un lato, buoni «raccontatori» e «raccontatrici» di storie abbondavano nel XX secolo, attualmente, nel contesto tradizionale, il quadro risulta profondamente mutato. Comparata con l’eredità di altri generi scritti, la graduale scomparsa di narratori – e quindi anche dei repertori – è davvero notevole. Nonostante sia ancora possibile incontrarne alcuni nelle zone rurali, la mancanza di un costante esercizio della memoria fa sì che molti esperti narratori ancora in vita non si ricordino grandi parti del repertorio.

QUESTA CIRCOSTANZA riflette, da un lato, l’istituzionalizzazione dell’insegnamento e l’aumento dell’alfabetizzazione, ma anche i cambiamenti tecnologici e comunicativi della contemporaneità: la narrazione orale è dunque un tipo di espressione culturale la cui salvaguardia è quanto mai urgente.
Proprio in questo contesto, tra il 2019 e il 2020, è nata una ricerca etnografica incentrata sull’osservazione del repertorio delle narrative tradizionali in diversi ambiti (e la sua conseguente sistematizzazione) in quanto traccia della cultura capoverdiana e patrimonio culturale immateriale. In tale percorso, il kriolu ha avuto un ruolo fondamentale nella comunicazione con i contastorie, nel maneggiare l’«Archivio delle tradizioni orali di Capo Verde», costituito dopo l’Indipendenza, e per comprendere la realtà linguistica che lo circonda.
Partendo dalla raccolta letteraria con i narratori è stato necessario, e possibile, ripensare alla situazione linguistica del paese. Si è ragionato anche sulle potenzialità insite in progetti focalizzati sulle tradizioni orali, considerate come patrimonio culturale: uno stimolo per realizzare politiche linguistiche che non riproducano relazioni di potere radicate nel colonialismo.

(Traduzione di Annamaria Di Gioia)

 

SCHEDA

ll «Premio Ostana: scritture in lingua madre» (dal 3 al 5 giugno) è un appuntamento con le lingue madri del mondo che ogni anno riunisce a Ostana (Cn), borgo occitano ai piedi del Monviso, autori di lingua madre da tutto il mondo per un festival della biodiversità linguistica. L’edizione sarà online, all’insegna del partatge, antico termine in lingua occitana che significa condivisione. Tra gli ospiti della XIII edizione: Luci Tapahonso, poetessa navajo; «Chi» Suwichan Phattanaphraiwan, attivista Karen, di lingua pgaz k’nyau; Jaume Cabré, scrittore catalano; Pirita Näkkäläjärvi, attivista e politica Sami. Si parlerà poi di diritti linguistici anche con Davyth Hicks, gallese di lingua madre cornica e specialista in idiomi minoritari; di migranti e loro identità e adattamento con Maite Puigdevall, docente di filologia catalana, mentre Macarena Dehnhardt, linguista cilena, parlerà del ruolo della traduzione nel settore pubblico. Di traduzione letteraria si discuterà con Monica Longobardi e Matteo Rivoira, a partire da «Vautres que m’avetz tuada» (Voi che mi avete uccisa) dell’occitano Joan Ganhaire. Fra gli altri interventi, ci saranno quello dell’antropologa brasiliana Maria Isabel Lemos mentre Fabio Chiocchetti, militante ladino, dialogherà con Carlo Zoli, linguista e fondatore di Smallcodes, un gruppo specializzato nello sviluppo di strumenti per le lingue minoritarie.