Il giorno dopo lo strappo si fa caso alle crepe. Cioè ai rischi che anche la nuova legge elettorale proposta da Renzi e Berlusconi sia incostituzionale, quanto e più del Porcellum. Non c’è solo l’insistenza della minoranza del Pd, che concentra le sue critiche sulle liste bloccate. Anche il ministro delle riforme Quagliariello, per contro del Nuovo centrodestra, solleva qualche perplessità costituzionale. E poi c’è la contrarietà di Sel alle alte soglie di sbarramento. E ci sono i centristi di Scelta civica che vorrebbero alzare la quota sotto la quale si va al ballottaggio, dal 35% al 38%. A loro Renzi replica con la stessa grazia con la quale si era rivolto a Cuperlo: «I partitini si arrabbiano? Si arrangino».

Il mantra del segretario, che gli vale la riconoscenza del Cavaliere, è che nemmeno un dettaglio dell’accordo si può cambiare: «Sta insieme se vengono mantenuti tutti i tasselli». E nell’accordo ci mette anche la trasformazione del senato (ancora in buona parte misteriosa) e le modifiche al Titolo V della Costituzione.

Effetto dello strappo è anche la paradossale situazione in cui si è venuta a trovare la commissione affari costituzionali della camera. Che più di un mese fa ha tolto la competenza sulla riforma elettorale alla equivalente commissione del senato, promettendo di correre. Invece è rimasta ferma, prolungando ripetitive audizioni. E ancora non riesce a lavorare perché aspetta il testo dell’accordo firmato Renzi-Berlusconi. Ieri, esaurito ogni possibile rinvio, il capogruppo del Pd Fiano ha illustrato un testo che ancora non c’è. Si è tenuto sulle linee generali. Oggi il presidente della commissione e relatore Sisto (Forza Italia) dovrebbe ricevere la mail definitiva e presentarsi con la proposta di legge in tutti i suoi articoli. Allora sì che la commissione si metterà a correre.

Renzi vuole che sia mantenuta la scadenza simbolica di fine gennaio per il passaggio in aula. Impossibile però che la commissione finisca davvero lunedì prossimo, come da programmi originari, tanto più che per farlo dovrebbe escludere i deputati di Sel che nel fine settimana hanno il congresso del partito. Si arriverà allora a mercoledì. Ma solo se – come vuole Renzi – non si toccherà niente.
Forza Italia non vuole l’innalzamento della soglia del 35% perché spera di raggiungerla al primo turno e aggiudicarsi il premio: Berlusconi non si fida dei suoi elettori al ballottaggio. E non accetterà mai le preferenze, come Renzi ha ammesso ieri sera. «Non sono riuscito a ottenere le preferenze. Vero, non ce l’ho fatta. Su questo punto abbiamo ceduto. Altrimenti saltava tutto», ha scritto ai lettori del suo sito. In serata, però, in televisione, ha corretto un po’ il tiro. «Le camere possono cambiare il progetto di legge», ha concesso. Ma i parlamentari del Pd no: «Nel Pd si fa quello che ha deciso la direzione dove nemmeno uno, neanche Cuperlo, ha votato contro». Si sono astenuti.

Una modifica però, almeno una, Forza Italia ha intenzione di chiederla. Per favorire la Lega, che del resto la sua scappatoia l’aveva anche nel Porcellum. L’idea è quella di inserire una soglia di sbarramento a livello territoriale (nel sistema spagnolo originale è nei collegi). Altre richieste non paiono destinate allo stesso successo. Nemmeno quella di Alfano, che è tra i principali responsabili di questo sgangherato Italicum e che però si erge a paladino delle preferenze. Mentre l’altro ministro diversamente berlusconiano, Quagliariello, dice adesso che il premio di maggioranza del 18% rischia di essere troppo alto rispetto alla sentenza della Consulta. In realtà il gioco incrociato degli sbarramenti e del premio può portare il doping maggioritario fino a vette molto più alte. Addirittura, come abbiamo spiegato ieri, se si fosse votato l’anno scorso con il Renzi-Berlusconi il premio per un Pd vincente al ballottaggio sarebbe stato del 28%. Più su del Porcellum.