È il pomeriggio del «nuovo inizio», il primo giorno dell’«impegno 2014», l’aria è ancora densa del programma calato da Enrico Letta in parlamento quando in tv su Sky, all’ora del pranzo, appare il ministro Quagliariello. Non sorridente, minaccioso. «Nessuno può fare le riforme prescindendo dal governo. O questa maggioranza trova un accordo sulla legge elettorale e le riforme o va in crisi». Ed è il più prudente dei ministri di centrodestra a parlare, quello che i berlusconiani hanno cominciato ad accusare di tradimento un minuto dopo averlo visto giurare in Quirinale.

Crisi? Nessuno prende sul serio la determinazione di un partito appena nato che, si votasse subito, finirebbe stritolato dalla propaganda di Arcore. Però l’uscita di Quagliariello – «le riforme si possono fare solo se diventano parte di un accordo di governo» – scaraventa sul piatto (in quella che per il governo doveva essere la prima giornata tranquilla) un problema che è interamente del presidente Letta. L’attivismo di Renzi ha convertito all’istante senatori e deputati del Pd, non tutti ma abbastanza. E così ieri, dopo mesi di falsi movimenti, i democratici hanno dato un primo colpo, pesante, agli alleati di governo, votando al senato con Cinque Stelle e Sel per spostare alla camera la discussione sulla legge elettorale. Prima di sera l’auspicio è diventato realtà, un incontro di cinquanta minuti alla camera tra la presidente Boldrini e il presidente Grasso ha ordinato la traduzione degli incartamenti da palazzo Madama a Montecitorio. Nulla in realtà dovrà essere trasferito, perché nulla hanno prodotto i senatori paralizzati dai veti incrociati. Al senato, stabiliscono ecumenici Boldrini e Grasso, andranno i progetti di riforma costituzionale, di certo quello annunciatissimo del governo per la riduzione dei parlamentari e il ridimensionamento dello stesso senato (d’altra parte sarebbe stato inelegante affidarlo alla camera).

Il trasloco è un primo successo di Renzi, che a questa causa è arrivato attraverso la battaglia del suo deputato Giachetti che finalmente può interrompere un lungo sciopero della fame. Alla camera i numeri sono più favorevoli al Pd (grazie al decaduto premio del Porcellum), ma andrebbero bene anche quelli del senato nel caso il neo segretario riuscisse a chiudere un’intesa per il Mattarellum. Ad ogni modo l’eventuale riforma dovrà fare la navetta tra le due camere. Epperò il sindaco di Firenze segnerebbe un altro bel punto se potesse da qui a due-tre mesi portare a casa un primo sì di Montecitorio. Il Pd può riuscirci forzando la mano al gruppo di Alfano, minacciando altrimenti di guardare fuori dal perimetro del governo con i prevedibili risultati sul principio guida dell’esecutivo, la «stabilità». I post berlusconiani hanno una paio di strumenti per evitare di finire «asfaltati» da Renzi e dal ritorno del Mattarellum, il più efficace dei quali è lo sperimentato rinviare. Mettere al centro, cioè, la riforma costituzionale che ha bisogno di tempi e maggioranze del tutto fuori dalla portata di Letta. La legge elettorale viene «logicamente» dopo, spiegano gli alfaniani, che accusano Renzi di puntare solo alle elezioni anticipate. Al fronte polemico si uniscono ansiosi i senatori di Monti e di Casini. Lo scontro di propagande all’interno della maggioranza raggiunge allora livelli di guardia, regalando battute facili a Forza Italia: fino all’altrieri, infatti, erano gli alfaniani a considerare «irresponsabile» chiunque minacciava la crisi.

A dare soddisfazione al ministro delle riforme giunto a minacciare una befana tragica per la maggioranza, ecco allora la nota del collega Franceschini. «Sulle regole si parte ovviamente da un’intesa dei partiti di maggioranza, per poi doverosamente cercare un accordo più largo», dice il ministro per i rapporti con il parlamento, e assicura che sul primo passo è d’accordo anche Renzi. «L’ovviamente chiude la polemica», chiosa Qualgliariello: adesso si sa da dove si parte. Ma quel che conta è dove si arriva.