Mercoledì notte il consiglio dei ministri ha varato una «legge di stabilità» 2015 che segnerà molti anni a venire. Ci sono cose attese, ed altre meno attese, ma quello che non cambia è la filosofia e il segno di tutti i provvedimenti di questo governo.

Il Def 2014 di aprile era ancora un retaggio del governo Letta, anche se il ministero dell’Economia era passato dalla Banca d’Italia (Saccomanni) direttamente all’Ocse (Padoan). Il Def abbassava di molto le stime di crescita del dicembre 2013 ma era ancora fiducioso per un 2014 di ripresa del Pil, mentre per l’occupazione si sarebbe dovuto attendere un poco di più. Si scommetteva tutto su investimenti privati ed esportazioni, con consumi privati in stagnazione e investimenti pubblici in caduta libera.

Sappiamo invece come sta andando. Previsioni errate, come peraltro Fmi, Ocse, Bce e Ce avevano avvertito: il Pil quest’anno diminuisce rispetto al 2013, le esportazioni nette languono, grazie peraltro al contenimento delle importazioni, investimenti privati e pubblici sono in picchiata, e i consumi privati ristagnano nonostante il bonus di 80 euro.

La «nota di aggiornamento» al Def ha poi semplicemente fotografato lo stato di depressione, reso credibili le stime del Pil per il 2014, mantenuto però sopra le righe quelle al 2015, tanto che la Banca d’Italia ha osservato che la crescita prevista, pur modesta, pecca comunque di troppo ottimismo. Anche sui conti pubblici – aggiustati verso la soglia deficit/Pil del 3% e spostato al 2017 il raggiungimento degli obiettivi di medio termine – la Banca d’Italia esprime perplessità, data l’entità ottimistica dei risparmi previsti sugli interessi del debito. Almeno la Nota è onesta su un punto: prevede una pressione fiscale non minore negli anni a venire, anzi nel breve continuerà ad aumentare. La Nota contesta anche, in modo garbato ma deciso, le stime dell’«output gap», ovvero la differenza tra reddito effettivo e reddito potenziale, per invitare la Commissione ad essere molto cauta nel valutare (traduci: «minacciare d’infrazione») l’inadempienza del governo rispetto il Fiscal Compact.

Tuttavia con la legge di stabilità 2015, la «verità» governativa viene ristabilita, e si realizza una sana iniezione di ottimismo per l’economia reale.

L’aumento del deficit/Pil al 2,9% consente meno tasse su imprese e lavoro (Irap, decontribuzione assunzioni, bonus 80 euro) ma con minori spese per investimenti pubblici e autonomie locali, quindi servizi. Il rischio non è solo una redistribuzione della domanda piuttosto che una domanda aggiuntiva, quanto una sostituzione di domanda certa con domanda incerta. Il governo vara una grande azione di fiducia collettiva perché ora non ci sono scuse: «Consumate e investite a più non posso, che dal pantano usciremo solo grazie a voi». Neppure si fa leva sulla domanda estera, che il modello bavarese è in crisi profonda anche nella manifattura centro-settentrionale.

Tutto si gioca sul terreno della ripresa degli «spiriti animali» degli imprenditori che, affrancati da un governo che intende delegiferare su tutto e di più (dallo Sblocca Italia al Jobs Act). Dovrebbero investire tutto ciò che hanno risparmiato e guadagnato negli anni della crisi, magari indebitandosi se necessario, banche permettendo. E dovrebbero assumere flotte di lavoratori con il discount, contributi sociali zero e licenziamento facile entro i tre anni allo scadere della promozione, garantirà il Jobs Act.

Il governo è consapevole che la crisi che percorre il paese è profonda, lambendo la depressione. Per essere onesti, l’Italia è in depressione dal 2008, e gli italiani pure son depressi. Nonostante lo scenario economico accertato da tutti gli istituti internazionali, il governo rimane però fiducioso su alcune misure, e non potrebbe essere diversamente.

Il pilastro delle politiche renziane è quello di stimolare gli investimenti. Senza investimenti (è il refrain di Filippo Taddei) il paese non può uscire dalla crisi. Come non essere d’accordo. Ma il problema è chi deve fare gli investimenti e perché investire. Il governo non ha solo sottolineato che la spesa pubblica è inefficiente, sulla qual cosa ci si potrebbe anche lavorare, ma è pure inefficace, quindi più che inutile è dannosa perché drena risorse che il privato userebbe al meglio. Quindi se non si ri-avviano gli investimenti privati non si uscirà dalla crisi.

Ma gli investimenti privati sono pesantemente condizionati dalle aspettative. Renzi parla di «fiducia», che non è proprio un sinonimo, che il governo intende alimentare via riduzione del costo del lavoro, delle tasse e un incremento dei consumi; financo l’ipotesi di utilizzare il Tfr rientra in questa logica. Il taglio delle spese e delle tasse produce un effetto limitato? Vero. La carta canta, soprattutto per le tasse, un poco meno per la spesa, a dir il vero, che è domanda certa.

Ma non è questo il punto. Se lo scenario di riduzione delle tasse e del costo del lavoro è credibile, l’«austerità espansiva» assieme alla «precarietà espansiva» nel tempo darà i suoi frutti. Come interpretare, diversamente, le mirabolanti proiezioni di crescita di lungo periodo della riduzione delle tasse e delle privatizzazioni di partecipate pubbliche? Un bel problema.

[do action=”citazione”]Non si crede affatto al ruolo pubblico e più precisamente al pubblico come soggetto istituzionale capace di tenere in tensione la domanda effettiva. È acclarato.[/do]

Keynes è in soffitta. La sua idea era che lo Stato intervenga per fare cose che il privato non fa, e nella crisi sono molte le cose che il privato non fa. Investire, ad esempio. Ma per Renzi lo stato si deve ritirare, anche nella crisi, e lasciar fare al privato.

Nel frattempo sono sprecate risorse pubbliche che potrebbero avere ben altra destinazione, magari favorendo quei piccoli interventi di ripristino ambientale che sarebbero essenziali dato lo stato di salute del nostro territorio. Si potrebbero usare le risorse per industrializzare la ricerca pubblica e privata, per aumentare la produttività del capitale investito, cioè intervenire sul punto più debole dell’industria italiana. Poi investire in conoscenza, anche nei luoghi di lavoro, perché l’innovazione non è solo tecnologica ma anche organizzativa e riguarda qualità e condizioni di lavoro, flessibilità funzionale che sostiene la produttività. Ma il governo non si cura affatto di ciò; il lavoro è declinato solo in flessibilità di mercato, quella dei rapporti di lavoro «usa e getta».

Il problema è la filosofia di fondo che guida l’azione del governo. Lo stesso Jobs Act è lo specchio fedele delle policy governative. Noi creiamo le condizioni per la crescita, voi dateci una mano con gli investimenti.

Ma lasciare oggi la soluzione dei problemi ai cosiddetti «capitani coraggiosi» è un azzardo. Avrebbe anche un senso se avessimo un capitalismo dallo «sguardo lungo», ma l’industria italiana da anni ha dato prova di «sguardo molto corto».