Fino a poche settimane fa Renzi tanto si disinteressava dell’art. 18 da riversare aperto disprezzo sull’ipotesi di una «guerra di religione». Ha cambiato idea all’improvviso e ha preso a martellare quella scatola vuota che è diventato il noto articolo dopo il passaggio devastante di Elsa Fornero.
Resta oscuro cosa lo abbia spinto alla brusca inversione di marcia.

La spiegazione accreditata, anche dal cerchio magico di palazzo Chigi, è che quella bandiera, per quanto sventoli su una trincea abbandonata, mantiene una valenza simbolica tale da essere ancora considerata un trofeo prezioso in Europa. Conquistarla sarebbe la chiave necessaria per convincere i tetragoni unni a concedere quella «flessibilità» senza la quale non ci sono Renzi o Padoan che tengano e il disastro è assicurato.

È probabile che questa speranza alberghi davvero a palazzo Chigi. Ma senza esagerare. Pensare di contrabbandare per epocale la riformetta in questione con l’Europa significa prendere i duri di Bruxelles e Berlino per tonti. Cosa che in tutta evidenza non sono ed è poco probabile che il particolare sfugga a un furbo come Renzi. La speranza di vendere fumo all’Europa può essere una concausa nella scelta di dichiarare la «guerra di religione» irrisa fino a ieri, ma nulla di più.

Decisamente più importante è la necessità di trovare un appiglio almeno in apparenza solido in previsione della bufera che potrebbe scatenarsi di qui a pochi mesi, e che con l’art. 18 ha pochissimo a che vedere.

Il tornado, in questo caso, ha due epicentri.

Uno è la legge di stabilità, che minaccia di dimostrare l’inconsistenza della politica renziana svelando così il gioco di prestigio su cui si basa la vasta popolarità del rottamatore.

Altrettanto importante, forse anche di più, è l’approssimarsi di una scadenza potenzialmente deflagrante: l’elezione del presidente della Repubblica.
Napolitano è a un soffio dal cedere il passo, e nei palazzi della politica lo sanno anche i muri. Il traguardo che lui stesso si è prefissato è la nuova legge elettorale. Votata quella, potrà dire di aver incardinato il percorso delle riforme istituzionali e farsi da parte.

Nei progetti di Renzi e Berlusconi, il suo successore dovrebbe fare da garante a quel «patto del Nazareno» che va molto oltre il semplice accordo su riforma del Senato e legge elettorale, configurandosi piuttosto come costruzione di un assetto politico fondato sulla spartizione complessiva del Paese. In teoria, il cambio della guardia sul Colle sarebbe utile per i soci del Nazareno. È vero infatti che di quel patto Giorgio Napolitano è stato insostituibile puntello, ma è anche vero che nella sua visione il ruolo di Berlusconi deve restare subordinato, non essendo mai venuta meno la fondata diffidenza del capo dello stato nei confronti del pregiudicatissimo.

La pratica però è un’altra cosa. Che con queste camere misurarsi con le nomine equivalga a una passeggiata nella giunga vietnamita dei bei tempi è un fatto. È stata la mancata elezione del presidente della Repubblica a determinare il crollo di Bersani, la conseguente ascesa di Renzi e in generale l’intero pericolante assetto attuale.

Da allora le cose non sono cambiate se non in peggio, come attesta la farsa delle nomine per Csm e Consulta. L’elezione del nuovo presidente rappresenta in realtà un’occasione d’oro per i nemici del Nazareno, che sono decine sia nel Pd che in Fi.

La somma tra una condizione economica disastrosa che la legge di stabilità minaccia di svelare e l’obbligo di riempire la casella fondamentale della presidenza della Repubblica rappresenta un pericolo enorme sia per Renzi che per il famigerato Patto. Dal torneo potrebbe facilmente uscire fuori un nome tale da ridimensionare pesantemente sia il giovanotto che il suo capolavoro politico, l’asse con Berlusconi, primo fra tutti Mario Draghi.

Renzi ha iniziato ad armarsi in vista di un braccio di ferro che immagina imminente e in cui non dovrà sfidare lavoratori con le spalle al muro ma soggetti infinitamente più potenti. Quei «poteri forti» che non a caso lui stesso ha chiamato per la prima volta in causa ieri, affermando dagli states che è «pronto a sfidarli».