L’esasperazione di Zingaretti è fragorosa: «Toc toc… c’è qualche altro leader che sostiene e che ha voluto questo governo, che lo difende dalle bugie e dagli attacchi della destra?», scrive su Fb. Il messaggio, stavolta, è rivolto non al solito Renzi ma a Di Maio e la preoccupazione del segretario del Pd discende direttamente dalla mazzata umbra. Se gli stessi capi della maggioranza guardano alla manovra con malcelata insoddisfazione, come si può pretendere che piaccia agli elettori? Di Maio risponde all’appello: «Ora siamo molto più soddisfatti. Il governo ha fatto un ottimo lavoro di squadra. Ma se la manovra è cambiata molto e le tasse superflue sono state cancellate è grazie al Movimento». Non sono i toni che auspicava Zingaretti. Di Maio insiste chiaramente nel considerare questa maggioranza un’alleanza competitiva, modello sideralmente distante da quei «comune sentire, comune tensione, comune idea di sviluppo» senza i quali, per il leader del Nazareno, «non ha senso andare avanti».

NON SI TRATTA SOLO di manovra. Anche per il prosieguo, cioè per quando, da gennaio, il governo non avrà più l’alibi della legge di bilancio e dovrà provare quanto «comuni» siano visioni e disegni, i partiti maggiori della coalizione sembrano muoversi in un’ottica che è da «contratto», non da «alleanza». Ciascuno con la sua bandiera, con la sua priorità rivolta al proprio elettorato. Per Di Maio è l’acqua pubblica: «Abbiamo già la proposta pronta». Vorrebbe che fosse «la prima legge del 2020». Per Bersani è la modifica dei decreti sicurezza di Salvini. Oggi verrà automaticamente rinnovato l’osceno patto con la Libia. La Ocean Viking è rimasta per dieci giorni in mare, proprio come succedeva con Salvini. Sulla condizione «inderogabile» posta il 22 agosto dallo stesso Zingaretti si è derogato in abbondanza. Per una parte dell’elettorato di centrosinistra la mancata discontinuità sull’immigrazione rischia di rivelarsi letale.

SOLO CHE, FATTI SALVI i rilievi del capo dello Stato, sui decreti la maggioranza non ha alcun «comune sentire». Perché l’incapacità di passare da un contratto tra forze competitive a un’alleanza politica è figlia del peccato originale di questa maggioranza, l’ambiguità che ha permesso ai 5S di formare il nuovo governo in nome della continuità con quello precedente e al Pd in nome della discontinuità.

Ma prima di gennaio ci sarà appunto la manovra, alle prese con un non facile passaggio parlamentare. Anche su questo fronte, di comune si vede al momento poco. Il ministro dello Sviluppo Patuanelli chiede più fondi per le imprese. Buona parte dei 5S e Italia Viva non si accontentano della diminuzione della tassa sulle auto aziendali e puntano all’azzeramento. Renzi intende dare battaglia sulla plastic tax e non ha rinunciato al progetto di fare di Quota 100 una rumorosa guerra parlamentare. Resta in sospeso la minaccia di dimissioni del ministro dell’Istruzione Fioramonti se non arriveranno i nuovi fondi richiesti.

NON CHE ESISTA qualche possibilità di naufragio della manovra. Arriverà all’approdo nei tempi stabiliti. Il problema riguarda però come arriverà a quella mèta la maggioranza, con quante lacerazioni e ammaccature. Da questo punto di visto, per ora, lo shock umbro sembra aver migliorato il quadro. Ma nel complesso le chance di dar vita a una vera alleanza politica restano basse. «Basta parlare di coalizioni», ha ripetuto ieri Di Maio, rispondendo a Bersani che aveva spezzato la sua lancia per l’alleanza in Emilia-Romagna. Ma senza quell’orizzonte comune, la ragion d’essere del governo, muretto anti Salvini a parte, scomparirebbe.