La trovata era ingegnosa. E ingenua. Mettere uno zero tra il due e quattro e fare finta di nulla. In principio era il 2,4% del deficit, sembrava la Sacra Sindone. Nessuno lo avrebbe toccato. «Me ne frego» urlava Salvini. Il giuramento era stato fatto dal balcone di palazzo chigi il 27 settembre scorso, quello dove Di Maio evocò la sconfitta della «povertà». Poi, la paura dello spread, il richiamo all’ordine dei cagnacci di Bruxelles – quelli che sarebbero, in teoria, i loro «nemici» – riportato i sedicenti populisti a sbattere i tacchi e a fare il giochino contabile a misura di gonzi: il 2,04. Non ci ha creduto nessuno. Ma visto che il pallottoliere non conosce tregua, nella lettera che il governo ha inviato alla Commissione Europea ieri la stima del deficit-Pil è stata riportata ad un più tondo 2%. Ora lo chiamano «arrotondamento tecnico».

LO 0,4 DOPO IL DUE allora resta. Così si chiude il dibattito più surreale degli ultimi anni: quello su una percentuale. Più o meno i 7 miliardi in meno che Lega e Cinque Stelle hanno dovuto tagliare alle loro misure elettorali, in vista delle europee di maggio 2019, pensioni “quota 100” e sussidio di povertà detto impropriamente “reddito di cittadinanza”. Nel 2020 il deficit sarà all’1,8% del Pil, nel 2021 all’1,5%.

QUANTO ALLA CRESCITA stimata all’1,5% del Pil, forse la più incredibile panzana raccontata per due mesi all’intero paese, è stata riportata all’1%. Dopo più di sessanta giorni di report di tutte le istituzioni indipendenti, e non, dall’Istat all’Fmi, dalla Banca d’Italia alle sospettate agenzie di rating, fino alla Bce di Francoforte, alla fine anche i politici più fantasiti hanno dovuto ammetterlo: la famosa crescita sta rallentando, quindi meglio valutarla un terzo di meno. Il rischio è che sia ancora di più inferiore. E questa non è una bella notizia. Senza contare che tutto questo è, ancora, solo una tregua.

Nel loro gioco da poliziotto buono e poliziotto cattivo, da Bruxelles i commissari Dombrovskis e Moscovici hanno fatto capire che questo gioco estenuante in cui hanno attratto i “populisti” non è finito. Il governo resta commissariato, anche se ieri era tutto uno stringersi di mani e darsi pacche sulle spalle. La prima verifica sulle poste in bilancio, e l’applicazione del “patto” stretto al volo da Conte al telefono con Dombrovskis, sarà a gennaio. E fino a febbraio, la commissione Ue farà sempre a tempo a iniziare la procedura di infrazione.

L’AVVERTIMENTO è chiaro: nei prossimi giorni, ma saranno faticosissime settimane, il governo dovrà provare a spiegare – magari in un testo articolato – in che cosa consisterebbero – concretamente, comma per comma, con le tabelle e se è possibile senza «manine» – sia le pensioni «quota 100» che il «reddito di cittadinanza». Ieri Tria, e Conte, hanno giurato in nome di Di Maio e Salvini: partiranno il primo aprile, data più che simbolica, e le platee annunciate restano le stesse. Solo che non c’è alcuna certezza, formale, di quante siano e da chi siano composte. C’è solo la parola dei politici. E il loro rassicurare le folle sulle loro piattaforme digitali. Nel frattempo il panottico di Bruxelles continuerà a monitorare. Per reciproca convenienza politica, in vista del voto di maggio, forse tutto filerà liscio. O forse sarà richiesta una manovra aggiuntiva. In attesa di lumi, Bruxelles ha spuntato un deposito cauzionale di 2 miliardi. Il governo ha concesso un auto-monitoraggio periodico sullo stato dei suoi conti e la promessa di molti tagli.

NEL DETTAGLIO al cosiddetto «reddito di cittadinanza» andranno nel 2019 7,1 miliardi di euro, con un taglio di 1,9 miliardi. Da cui va sottratto un altro miliardo circa per l’epocale riforma dei centri per l’impiego. Dunque 6,1 miliardi, da cui bisogna sottrarre i fondi per il «reddito di inclusione», pari all’incirca a 2,5 miliardi (sarà prorogato al 2019), più altre voci non ancora specificate di partite economiche in essere. Nella lettera del governo i fondi sono dati in calo anche nel 2020, per 945 milioni, e nel 2021, per 683 milioni di euro. Come mai? Al netto dei vasi comunicanti con le pensioni «quota 100» – dietro questo andamento della spesa c’è la visionaria convinzione M5S per cui una volta introdotto il «reddito», e avviata la riforma (ancora tutta da conoscere, per davvero) dei centri per l’impiego, i «poveri assoluti» troveranno lavoro. Un’idea molto ingenua del ciclo economico, e soprattutto del sistema di «workfare» neoliberista che si vuole mettere in piedi.

POTREBBE INVECE rivelarsi, come quelle dei primi sei mesi di governo, infondata. In Germania,in Inghilterra o in Francia, dove questi sistemi esistono davvero, almeno una legge è nota agli osservatori: il governo dei poveri produce nuova povertà. I beneficiari dei sussidi condizionati al lavoro difficilmente escono dalla trappola della precarietà.