Hanno provato ad abbatterlo a furor di popolo e l’operazione, che atterriva il Pd, non è riuscita per un soffio. L’anno scorso la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme su un quesito che abrogava il jobs act, versione italiana della ’loi travail’ francese in realtà ispirata alla Jumpstart Our Business Startups Act di Barack Obama. Ma il testo non ha passato il vaglio della Consulta. Il sindacato di Susanna Camusso ha tenuto bassi i toni contro la Corte e giurato che la lotta sarebbe continuata: infatti è in arrivo il ricorso alla Corte di Giustizia della Ue.

Del resto il jobs act, con la sua tombale abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori (il divieto di licenziamento senza giusta causa) ha la palma della legge più contestata dell’era Renzi. Non a caso Giuliano Poletti, il ministro che se l’è intestata, è tra i meno apprezzati del governo. In realtà anche Renzi giurava che l’art.18 non si doveva toccare: ma questo prima di entrare sgommando a Palazzo Chigi, nel febbraio ’14. Nel dicembre del ’13 invece diceva: «Mai incontrato un imprenditore che mi ha detto che è fondamentale cancellare l’art.18», «se si riparte dal derby ideologico sull’art.18 sei finito, è il modo per andare in melma». Da premier, galeotto un incontro con Mario Draghi, in quella «melma» ha deciso di infilarsi.

Oggi la rivendica con orgoglio: «È una riforma di sinistra, ha creato 700mila posti di lavoro». Ma sull’interpretazione dei dati ormai c’è una sterminata letteratura. A partire dal fatto che i nuovi posti non sono stabili, per il banale fatto che con la nuova normativa il lavoratore può essere licenziato senza giusta causa. Per questo anche alcuni che l’hanno votata hanno cambiato idea. E così il jobs act è diventato la nuova linea del piave della sinistra: o di qua, o di là con Renzi.

Il capo della minoranza Pd Andrea Orlando chiede «un tagliando alla legge»; il governatore Michele Emiliano ne ha chiede la cancellazione. Contrarie dall’inizio tutte le sfumature della sinistra extraPd che ne chiedono l’abrogazione secca, «senza subordinate». Sferzante Stefano Fassina, già viceministro all’economia con il premier Letta e prima ancora homo economicus del Pd: «Con questa legge il Pd di Renzi diventa il partito degli interessi forti. Dopo essere arrivato sulle posizioni di Ichino ora ha raggiunto Sacconi», ministro di Berlusconi e in effetti uno dei padri del testo, «restano tutte le forme di contratti precari ma il diritto del lavoro torna agli anni 50».

In mezzo al gorgo resta la ’Ditta’ Bersani D’Alema and Co, ormai fuori dal Pd. Ai tempi dell’approvazione alla Camera la compagnia si era divisa: chi come Cuperlo e Fassina era uscito con le opposizioni (Lega, Sel, Forza Italia, Fratelli d’Italia, M5S), chi invece aveva votato sì, come l’allora capogruppo Roberto Speranza, l’ex capo della Cgil Guglielmo Epifani e lo stesso Bersani («Voto sì con convinzione per la parte che condivido, per quella che non condivido per disciplina»). Oggi, visto l’aumento del 30 per cento dei licenziamenti disciplinari, gli stessi chiedono la reintroduzione dell’art.18, «almeno di un 17 e mezzo», e cioè la reintegra del lavoratore «nei casi di licenziamenti disciplinari, discriminatori, inefficaci o nulli».