Si dice che fu dal ricordo delle scorribande campestri per i boschetti della sua infanzia, quando egli vagava all’ombra misteriosa degli alberi guadando ruscelli, esplorando piccole caverne, osservando il sole cedere ad un crepuscolo solenne e minaccioso, impugnando spade e archi di legno nel sogno di un giocoso eroismo che Shigeru Miyamoto trasse l’ispirazione per comporre Legend of Zelda, primo videogioco di una serie fantasy di Nintendo che perdura da trentacinque anni facendoci vivere e rivivere l’illusione dell’avventura, della scoperta, della vittoria contro il male assoluto. Se si escludono le imprese di Super Mario, altra stellare invenzione di Shigeru Miyamoto, nessuna serie di videogiochi ancestrale come Legend of Zelda vanta una longevità il cui valore emozionale e ricreativo non scade nell’obsolescenza o nella trita ripetizione malgrado le innumerevoli iterazioni nel corso del tempo e dell’evoluzione tecnologica, non smarrendo il cuore ludico e poetico delle origini, pulsante invece ogni volta con un suono nuovo eppure antico, riconoscibile e sorprendente. Come un’onda che segue un altra onda, ogni Leggenda di Zelda consegue la precedente, simile eppure mai la stessa, mutata dall’ingegno dei suoi autori invece che dalla forza della natura.

C’è sempre Link, ragazzo verde vestito dalle orecchie a punta, il cui nome può significare «Legame», «connessione», «collegamento», il nesso tra chi gioca e il videogioco. Link è stato marinaio e licantropo, bambino e adulto, cavaliere di grandi volatili e indomiti destrieri, arciere, spadaccino, cuoco, rimpicciolito da cappelli incantati o autista di strani treni, ma in definitiva, sebbene ogni avventura si svolga in un tempo diverso, egli è sempre la stessa «persona» come lo è che chi lo gioca, anche se mutato dagli anni e dalla vita. C’è sempre Zelda, la principessa, che non è mai una fragile damigella in difficoltà ma l’ultimo baluardo verso la catastrofe definitiva, talvolta distante e inarrivabile come una dama angelicata da un poeta del dolce stil novo, altre sfrontata e ribelle piratessa, oppure disperata e malinconica, oppressa dal destino, o amorevole e persino appassionata. Non a caso questi videogiochi si chiamano Legend of Zelda, è questa ragazza che muove tutto, che orienta l’avventura, che ispira Link durante le sue imprese disperate e noi tramite di lui. Zelda non è la principessa Peach di Super Mario, ma «l’amor che spinge».

E c’è, tranne una volta -forse solo un sogno- sempre Hyrule, lo spazio dell’avventura, il mondo di gioco anch’esso cangiante nel susseguirsi delle ere, con le sue praterie, il castello al centro di ogni geometria ludica, i fiumi, i laghi, i deserti, i villaggi, i boschi, i labirinti.

Infine il male, Ganon per lo più, qualche volta più mostruoso altre meno e persino umano nella sua ferocia, ma spesso totale incarnazione di una divina malvagità in perenne ricerca della Triforza, potere mistico rappresentato da tre triangoli che sono corpo astratto delle dee dell’origine.

Dall’origine di trentacinque anni fa sulla console di Nintendo a 8 bit, Legend of Zelda offrì epopee personali ai giocatori di tutto il mondo, esplorazione e indagine, difficoltà e trionfo, segreti e contemplazione, consentendo inoltre per la prima volta su quell’hardware di «salvare» la propria posizione, non perdere il progresso e vanificare la fatica, non alimentando quindi il virtuosismo meccanico di quasi tutti i giochi di allora ma la determinazione ad andare sempre oltre, a raggiungere degli obiettivi in maniera graduale, trasformando così il videogame e la sua esperienza in qualcosa di simile alla lettura, il libro e il segnalibro.

Da allora a oggi ogni episodio di Legend of Zelda ha rivoluzionato in maniera silente o clamorosa il modo di farci giocare, elevandolo verso nuove direzioni, mutandolo, talvolta ispirandosi ad altro di già esistente come nel caso dell’immenso mondo aperto di Breath of the Wild, spazio concepito assecondando le intuizioni ludiche di Rockstar Games o Ubisoft ma perfezionandole con una vitalità e unicità travolgenti.

Nelle leggende la narrazione è minimale solo in superficie, andando a contrappuntare il pensiero e l’emozione del giocatore, che completa così il racconto con se stesso, d’altronde Link non parla, le sue parole sono le nostre; ci sono inoltre, ad accompagnare l’intreccio principale, novelle di poche parole recitate da personaggi secondari, storie nascoste sotto un ponte, nelle profondità di una cava remota, sottoterra e sott’acqua, in un altro tempo, nel sogno, narrazioni che possono essere anche solo opzionali e quindi rischiano lo smarrimento come accade nella vita, quando non ci accorgiamo di un sentiero, entriamo in una porta invece che in un’altra determinando esiti immutabili guidati dal caso e dall’arbitrio.

Mai, neanche in maniera illusoria, è invece superficiale la musica e non solo per la colonna sonora lirica, dolce, solenne, mistica, panteistica o terrificante di Koji Kondo; nelle leggende c’è quasi sempre uno strumento da suonare attraverso il controller, che siano le corde vocali di un lupo o un ocarina magica, una bacchetta che dirige l’orchestra dei venti o un coro di rane.

Nell’attesa che esca il seguito ancora senza titolo di Breath of the Wild che ci porterà nei cieli sopra Hyrule e mentre per Switch è appena stata pubblicata la versione rimasterizzata in digitale dell’altrettanto celeste e sperimentale Skyward Sword, le «vecchie» leggende di Zelda sono quasi tutte reperibili e adattate per le console Nintendo più attuali in formato digitale, fisico o restaurate: DS, 3DS e lo sfortunato Wii U.

Indurre a giocare Legend of Zelda alle nuove generazioni è uno dei modi migliori per tentare di insegnare loro che il videogioco è soprattutto meraviglia e non solo tecnologia, competizione, ostentazione. E ogni volta che cominciamo una nuova Leggenda o attendiamo con anticipazione che infine esca, si può percepire una corrispondenza con quel sentimento gioioso e amorevole descritto con somma sensibilità da Natalia Ginzburg, raccontando di quando, molto giovane, aspettava con lieta ansia una serale rappresentazione del Lohengrin di Wagner, felicemente ignorando il giorno dopo con le sue venture ombre e luci, anelando solo di naufragare con dolcezza e estasi nell’oceano senza tempo dell’arte e della favola.