Costruire fabbricati su zone alluvionali o a rischio frane è un vecchio vizio italiano, ma la notizia è che purtroppo, dopo tante vittime e tragedie, non è ancora un vizio perso. Nel Belpaese ci sono ad oggi ancora 7 milioni di persone che convivono quotidianamente con il pericolo costante di frane e alluvioni; oltre 100 mila solo a Roma, e altrettante a Napoli. E sono oltre 400, i Comuni dove interi quartieri potrebbero essere spazzati via da un momento all’altro, mentre in più di mille Comuni (1.047) ci sono singole abitazioni costruite in aree a rischio, vicino ad alvei di fiume, terrapieni alluvionali o in zone pedemontane a rischio frane.

In realtà i numeri assoluti sono inevitabilmente sottostimati, perché l’indagine condotta da Legambiente per il rapporto «Ecosistema rischio 2016» presentato ieri nella sede dell’Anci è stata realizzata sulla base delle risposte fornite da solo 1.444 Comuni a un questionario inviato invece a tutti le amministrazioni comunali di città o paesi con aree a rischio idrogeologico (che solo la maggior parte degli 8 mila Comuni italiani).

Tuttavia da tale monitoraggio sulle attività nelle amministrazioni comunali per la mitigazione del pericolo idrogeologico si rileva che «l’urbanizzazione delle aree a rischio non è solo un fenomeno del passato: nel 10% dei Comuni sono stati realizzati edifici in aree a rischio anche nell’ultimo decennio». Nel 31% dei casi, ci sono interi quartieri in pericolo, nel 51% dei Comuni invece nelle aree golenali o franose sorgono impianti industriali o (nel 25%) commerciali, e perfino (nel 18% dei Comuni) scuole o ospedali. Inoltre «solo il 4% delle amministrazioni ha intrapreso interventi di delocalizzazione di edifici abitativi e l’1% di insediamenti industriali».

E non si tratta solo di piccoli paesi o cittadine: a sottovalutare il rischio idrogeologico ci sono anche le amministrazioni delle città capoluogo o metropolitane. Non a caso infatti «solo 12 capoluoghi hanno risposto al questionario di “Ecosistema rischio”: Roma, Ancona, Cagliari, Napoli, Aosta, Bologna, Perugia, Potenza, Palermo, Genova, Catanzaro e Trento». Secondo il report di Legambiente, «a Roma e Napoli sono oltre 100.000 i cittadini che vivono o lavorano in zone a rischio, poco meno di 100.000 anche le persone in aree a rischio nella città di Genova. E, nonostante i pericoli ormai evidenti, nelle città di Roma, Trento, Genova e Perugia anche nell’ultimo decennio sono state realizzate nuove edificazioni in aree a rischio».

Prendiamo il Lazio, per esempio: l’85% dei Comuni della regione è a rischio. Il 33% perché contiene interi quartieri costruiti in aree che dovrebbero essere off limits, e il 15% ha continuato a edificare in tali aree negli ultimi 10 anni.

«È evidente l’urgenza di dire concretamente Stop al consumo di suolo, di bloccare per sempre il diluvio di cemento e fermare l’espansione infinita delle città – afferma il responsabile scientifico di Legambiente, Giorgio Zampetti – a partire da Roma, dove in ogni settore continua ad avanzare il cemento e contemporaneamente si rischia la paralisi della città e si trema ad ogni bomba d’acqua». Una situazione, questa, ha aggiunto il delegato Anci, Bruno Valentini, «già ben a conoscenza dei Sindaci, che da anni chiedono rafforzamento delle risorse, semplificazione normativa e competenze adeguate per intervenire in modo sempre più efficace».