Un ragazzo serio, occhi bassi, seduto su una sedia in mezzo ad una sala d’ospedale spoglia ha davanti la protesi della sua gamba. L’aria rassegnata, arresa, intorno desolazione e solitudine. Lo scatto in bianco e nero, la gamba di legno, di Leena Saraste, fatto nel campo di Sabra, Beirut, fa parte della serie For Palestine, compiuta fra il 1980 e il 1983. Un racconto duro e struggente dei campi palestinesi in Libano: case distrutte, sventrate, cimiteri dei martiri, donne e bambini disperati fra le rovine di Shatila.

Una bambina piccola aggrappata alla spalla del padre che la trattiene con la mano mentre lei osserva dritto in macchina con occhi curiosi e spaventati nella tendopoli per rifugiati di Set Zaynab, Siria. Sono alcune delle immagini della fotografa finlandese Leena Saraste in mostra da oggi a Ferrara alla Biennale Donna nella collettiva Attraversare l’immagine. Donne e fotografia tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, a cura di Angela Madesani alla palazzina Marfisa D’Este (visitabile fino al 22 novembre).

Nel percorso, tredici fotografe italiane e internazionali fra cui Paola Agosti, Diane Arbus, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Françoise Demulder, Francesca Woodman e un catalogo bilingue. La Biennale, organizzata dall’Udi, si concentra su un periodo di impegno politico e sociale in cui le donne si sono distinte per i cambiamenti e le battaglie per l’emancipazione e i diritti civili.

Leena Saraste, nata ad Helsinki nel 1942, laureata in filosofia e storica dell’arte, teorica, docente, ha influenzato in maniera significativa la fotografia del suo paese. Dopo essersi occupata di moda ha viaggiato come fotoreporter nei territori palestinesi, Siria, Libano. I suoi scatti sono stati pubblicati nel volume Rakkaani, Palestina (Per la Palestina, 1982) e su diverse riviste. A Leena Saraste abbiamo rivolto alcune domande.

Perché considera «For Palestine» un lavoro superato? Potrebbe sembrare il reportage da un campo profughi di oggi…
Appartiene alla storia, come la Palestina, che, quando andavo a scuola, esisteva ancora sulle mappe. Negli anni ‘80 le persone erano ancora ottimiste e volevano farsi fotografare, pensavano che così il mondo avrebbe conosciuto e capito la loro situazione, ma non è accaduto. Sono tornata a Beirut nel 2005 e le persone erano aggressive davanti alla macchina fotografica, in tanti avevano usato la loro miseria. Dal mio libro For Palestine hanno capito che non volevo sfruttare la loro immagine, ma ero interessata più a fare qualcosa che avesse un senso. Ho avuto così il permesso di lavorare. I muri e i campi decorati mostravano un disperato ottimismo mentre la gente aveva quasi perso la speranza. Ho ritrovato una famiglia che avevo fotografato nell’82 quando era tornata al campo dopo l’assedio, ma il più grande giornale finlandese non voleva il reportage. Avevano pubblicato la storia originale dicendo quasi che erano morti. La morte è una notizia, sopravvivere non è altrettanto interessante. Oggi chi pubblicherebbe per esempio storie di pace dalla Libia?

[do action=”citazione”]La mia estetica, basata sul bianco e nero, deriva da Fellini, Rossellini, De Sica, Visconti, Bergman. Non c’era nessuna formazione fotografica, ho preso spunti dal cinema[/do]

 

Quale tecnica di composizione artistica ha usato?
Era una classica pellicola (Ilford FP4 o Kodak TRI-X) che, se possibile, preferivo sviluppare sul posto. Avevo due macchine, una per il b/n e una per il colore, che non veniva usato per le mostre perché la stampa era molto costosa. Il bianco e nero non era abbastanza obsoleto all’epoca e anche la composizione classica era accettabile. Oggi potrebbe sembrare storico, come il fotogiornalismo dei magazine americani Look and Life degli anni ’50 e ’60 che si dice stia tornando in auge. La mia estetica basata sul bianco e nero deriva da Fellini, Rossellini, De Sica, Visconti, Bergman. Quando ho cominciato non c’era nessuna formazione fotografica così ho preso riferimenti e spunti dalla possibilità più vicina, il cinema. Ricordo che ogni sabato pomeriggio ci sedevamo all’archivio filmico finlandese a vedere e analizzare i classici. Ero giovanissima, fra i 18 e i 22 anni, c’era ancora un vasto spazio vuoto nella mia mente e nel mio cuore per nuove immagini.

Come dialoga il suo progetto con gli altri esposti alla Biennale Donna?
È interessante la varietà di lavori che siamo capaci di produrre. So quanto sia differente il mio occhio da quello di Diane Arbus. Tutte abbiamo scelto e trattato diversamente i nostri progetti. È una scena molto ricca, e oggi, particolarmente in Finlandia, ci sono tante fotografe quanti uomini. Ho insegnato questa materia negli anni ’70 al Lahti Design Institute e in pochi anni, quasi un terzo erano donne. Il 1991 ha rappresentato un record: un solo studente maschio.

È appropriato parlare di un approccio femminile alla fotografia?
La più grande differenza fra uomini e donne è visibile nei volti dei soggetti. Io non mi nascondo dietro la macchina, ma guardo dritto negli occhi. Fissare una fotografa conferisce alla persona un’altra espressione, si stabilisce un contatto umano. Ci sono molte altre differenze fra le personalità, non solo legate al genere.

Oggi su cosa si concentra la sua ricerca?
Sto facendo un lavoro teorico sulla storia della fotografia finlandese. Sono tornata nelle foreste dell’arcipelago dove nel 1975 ho cominciato a fotografare il cambiamento del paesaggio agricolo, quando si è smesso di far pascolare il bestiame. Ci sarà una mostra nel 2021 o 2022 al museo dell’arcipelago Aland.

La sua produzione ha segnato la fotografia finlandese, qual è la scena attuale nel suo paese?
Ci sono molti grandi fotografi. Dai primi anni ’70 abbiamo avuto un’importante formazione nelle scuole e all’Università di Arte e Design, ora Aalto University, e hanno preso vita diverse scene.

Che ruolo ha la fotografia in una fase storica così ricca di immagini?
La fotografia è ovunque, è facile produrre scatti a primo impatto ben fatti, ma che a un occhio critico non reggono dal punto di vista formale. Tutti sanno scrivere, ma non per questo sono scrittori. Il facile accesso a una corretta attrezzatura può incoraggiare le persone a una migliore comunicazione visuale, forse gradualmente all’arte. Spero di non risultare la snob che realmente sono.

Lori Sammartino, Roma, c. 1960 (courtesy Daniele Petizio)

LA RASSEGNA
Tredici sguardi al femminile, da Arbus a Mari Mahr fino a Francesca Woodman

Aprirà al pubblico domani (dopo l’anteprima odierna) negli spazi della Palazzina Marfisa d’Este la mostra Attraversare l’immagine. Donne e fotografia tra gli anni ’50 e gli anni ’80, che presenta le opere di 13 fotografe: Paola Agosti, Diane Arbus, Letizia Battaglia, Giovanna Borgese, Lisetta Carmi, Carla Cerati, Françoise Demulder, Mari Mahr, Lori Sammartino, Chiara Samugheo, Leena Saraste, Francesca Woodman e Petra Wunderlich. Il progetto, a cura di Angela Madesani, si inserisce nella riflessione che l’Udi dedica alla creatività femminile in tutte le sue forme e linguaggi sin dal 1984. Sfilano le immagini hanno saputo registrare i cambiamenti di tre decenni, con gli sguardi che sfiorano temi scottanti connessi al sociale, al patrimonio antropologico, alla sfera psicologica.

La rassegna si apre con la statunitense di origini russe Diane Arbus (1923-1971) e con l’indagine in mondi paralleli a quelli considerati «normali». Ci saranno poi le tarantate salentine di Chiara Samugheo (1935), mentre Lori Sammartino (1924-1971) racconta l’Italia uscita dalla guerra e sorpresa dal boom. Le istituzioni totali del disagio psichico sono al centro dell’indagine di Carla Cerati (1926-2016), così come la Sicilia nelle sue pieghe drammaticprende forma negli scatti di Letizia Battaglia (1935).
Il fotogiornalismo al femminile è presentato dalla francese Françoise Demulder (1947- 2008) — prima donna a vincere nel 1977 il World Press Photo – mentre la finlandese Leena Saraste (1942) mette in scena rovine umane e architettoniche del conflitto israelo-palestinese. Impegnata nella documentazione del mutamento della condizione femminile è anche Paola Agosti (1947) – suo il reportage sull’apartheid realizzato negli anni Ottanta in Sudafrica.

C’è poi la Genova portuale di Lisetta Carmi (1924), mentre di Mari Mahr (1941), fotografa anglo-ungherese, si può vedere la raffinata serie che rende omaggio a Lili Brik, la scrittrice, artista, attrice russa, musa di Majakovskij. Chiude la rassegna una piccola selezione di opere di Francesca Woodman (1958-1981), artista che ha lavorato sul proprio disagio e la perdita di sé, animando immagini di grande poesia.