In concomitanza dei 40 anni dello ska revival e di The Prince, il primo singolo dei Madness, band al cuore del genere, arriva sugli schermi e in video, il film One Man’s Madness. Recentemente presentato da Luigi Bertaccini anche in Italia, a Roma e Cesena, con ampia affluenza di pubblico, il film è dedicato alla vita del folle sassofonista del gruppo Lee Thompson. Questi ci accompagna, con la solita ironia e il suo tipico sarcasmo, negli esordi della band e nel prosieguo di carriera, tra aneddoti vari che ne testimoniano la spontaneità e l’amore per la musica. Un film divertente e coinvolgente, con immagini d’epoca e ricostruzioni dettagliate del periodo two-tone. Insomma la fiamma in bianco e nero brucia ancora. Ne abbiamo parlato con Lee Thompson.
Come è nata l’idea del film?
Jeff Baynes mi ha contattato all’inizio del 2016. Appena ha spiegato il concetto di intervistare amici, parenti, industria musicale, membri della band, e poi mi ha chiesto di travestirmi, di imitarli, ho subito pensato,’Perché io?’. Capiva che avevo delle capacità recitative, che avevo avuto un po’ più di una vita colorata! Sono stato d’accordo quasi subito. Eravamo solo io e Jeff alla regia e, cosa più importante, nessuno ci spingeva con delle scadenze, nessun contratto, il che rendeva la cosa ancora più attraente.
Come sei entrato in contatto con la musica ska?
Il mio primo incontro con la musica giamaicana è stato con la mia minuscola radio a transistor. La portavo religiosamente sempre con me. Potevi sintonizzarti su alcune stazioni radio lontane come Radio Luxembourg che ti ha dava le classifiche la domenica invece che, come Radio 1, il martedì dopo. Ah la tecnologia allora era così semplice. Ascoltai il meglio del reggae come Israelites di Desmond Decker & The Aces, Return of Django degli Upsetters di Lee Perry o Young, Gifted & Black di Bob & Marcia. Ho iniziato subito a collezionare singoli (gli album sono arrivati qualche anno dopo, troppo cari!!!). Il mio interesse per la musica ska è venuto ancora un po’ dopo, insieme al rocksteady, mentre approfondivo la storia del reggae. In particolare, c’erano Coxsone Dodd o Prince Buster con il suo approccio umoristico (a volte sciovinistico) come in Ten Commandments Of Man… La musica ska era molto difficile da trovare. Avevo l’abitudine di viaggiare nelle zone di Londra con grandi comunità nere come Acton Willesden e Brixton per soddisfare la mia dipendenza da questa musica. Mi sono imbattuto in un negozio a Upper Street a Islington, a nord di Londra, che aveva una cantina piena di 45 che erano stati buttati via. Quando avevo un po’ di denaro era un paradiso. Si dice che ci sia un cimitero di molti dischi della Trojan, migliaia, che sono stati seppelliti, ma non prima di essere sfasciati a colpi di martello, vicino a St Albans nell’Hertfordshire. Era per evitare di pagarci le tasse. Vergognoso.
Come fu la reazione del pubblico ai primi concerti ska di gruppi come Madness e altri della 2 Tone records?
Ska e reggae venivano suonati spesso nei club di Londra dai dj, prima che i gruppi punk salissero sul palco. Oltre ad alcuni brani glam non c’era molto altro compatibile con il movimento punk per riscaldare il pubblico. Dopo il punk molti gruppi svanirono o saltarono nella nuova tendenza New Romantic, i Madness optarono per le influenze rock punk/pub di Kilburn & the High Roads, la band di Ian Dury, Elvis Costello, Dr. Feelgood e The Sensational Alex Harvey Band. Ma aggiunsero reggae e pop e fu un successo. Gli Specials stavano suonando e vestendosi un po’ come noi, facendo quello che io e Chrissy Boy (chitarrista dei Madness, ndr) stavamo cercando di fare, perché in realtà non sapevamo ancora suonare molto bene. Sono venuti a Londra e Jerry Dammers si stabilì a casa di Suggs (voce dei Madness, ndr), parlandogli del desiderio di creare un’etichetta discografica con la quale i ragazzi «black&white» potessero godersi una musica per tutti. Il resto è storia.
Concordi sul fatto che il vostro album «The Liberty of Norton Folgate» sia tra le cose migliori dei Madness...
È stata un’esperienza gioiosa e indimenticabile dall’inizio alla fine. Tutti nella band avevano un’idea precisa su come doveva essere. E abbiamo raggiunto l’ obiettivo. In particolare con il pezzo che dà il titolo al disco. L’album è stato brillantemente prodotto da Clive Langer. Grande periodo.
In «One Man’s Madness» ricordi quasi Keith Moon.
Sono un grande fan di «Moon the Loon». Se non fossi stato un sassofonista, sarei stato uno spericolato batterista ispirato da personaggi del suo calibro anche se non credo che sarei qui ora a raccontarne la storia. Condividiamo le caratteristiche l’uno dell’altro. Ho letto la sua biografia My Dear Boy e ho incontrato l’autore Anthony Fletcher in un night club newyorkese. Ha detto che è rimasto sorpreso dal fatto che Keith Moon sia durato così tanto!