Aspettiamo i Led Zeppelin. Con la tensione che cresce. Ed ecco: «Ladies and gentlemen, Page, Bonham, Jones, Plant: Led Zeppelin!». Boato di 150 mila all’unisono. Tutti in piedi, scarica di flash, «good evening!» urlato due volte da Plant, Page attacca le prime note di The Song Remains the Same, altro boato, di nuovo tutti in piedi. Il suono è subito durissimo e pulitissimo, splendido. Un’energia nervosa e una vitalità accumulata per anni e scaricata tutta in una sera. La chitarra di Page (bianco e celeste) che non perdona, la voce «eroica» di Plant, Bonham e Jones che danno compressione e intensità. L’attacco è straordinario, con la cupola che si illumina (il palco come un tempio bianco, ahi!) e il grande schermo che si apre improvvisamente alle loro spalle. E tutti guardano lo schermo (la faccia di Plant e la chitarra doppia di Page), ed è come ammettere di vederli al cinema, che in fondo questa non può essere che un’esperienza di seconda mano. E quando poi entrano in azione anche le due torri laterali con tutto il loro apparato di luci e di laser, allora tocchi con mano, fino in fondo, tutta l’impotenza del rock mastodontico.
Ma chi sono i Led Zeppelin? Robert Hilburn, giornalista americano, quattro anni fa, li ha definiti «la quintessenza del rock di oggi, il gruppo che meglio sintetizza quali elementi del r’n’r hanno avuto più successo negli ultimi dieci anni. Se vuoi fare un film su una rock band, loro sono la band giusta, esemplare. Robert Plant è il classico cantante maschile sexy, aggressivo, colorato; Jimmy Page è un chitarrista geniale ed ha l’abilità di catturare l’immaginazione della gente con i suoi esperimenti elettronici; John Bonham è in grado di fornire una batteria consistente, martellante e ogni volta si fa un «assolo» di venti minuti; John Paul Jones dà una forte corrente sotterranea di tensione al sound del gruppo… Gli Zeppelin vanno al di là del rock degli anni ’60 e si propongono a una generazione che probabilmente non si ritrova più negli Stones e negli Who, o che non è stata capace di sentire tutto l’impatto dei Cream e di Hendrix». E stasera sono qui a dimostrare che sono ancora «the most successful group in the world», che la musica è rimasta la stessa.
Il prossimo brano è Black Dog, un pezzo viscerale di rock molto spinto, con passaggi strumentali impossibili. Nobody’s Fault but Mine con Plant anche all’armonica e Since I’ve Been Loving You con una chitarra svisata altissima e una voce tirata senza limiti in un blues raffinato. Rock’n’Roll, un classico heavy track, No Quarter ha una qualità eterea tremenda, tutta affidata a Jones per l’occasione impegnato superbamente alle tastiere. Lo schermo fisso sui bianchi e neri del piano (…) con la voce accorata e dolcissima di Plant. Bravissimo, ma già questo pezzo è troppo lungo ed è più di un’ora che stanno suonando. Hanno buttato fuori un mare di musica eccellente, una lezione alta di buon rock. E anche con momenti di grande emozione (la versione compressa, da urlo, di Trampled Underfoot rimandava alle cose più scioccanti della new wave). Ma adesso hanno evidentemente deciso di mettersi a fare i profondi, i sottili. E allora diventano noiosi, è inevitabile, diventano un vero «progressive rock group»: sentimentali, autodiligenti, dogmatici… con tutti i fantasmi del passato che ritornano, la musica uguale, come allora, quasi fosse invincibile. Ecco Kashmir ancora meticolosa e banale, Stairway to Heaven ancora fragile e fiduciosa, ancora fatta a ballata, come allora. E l’assolo di violino di Page in Dazed and Confused dentro una piramide di laser colorati che gira sempre più in fretta: unica novità è l’archetto del violino che ad un certo punto diventa anche lui incandescente. «Oh Jimmy Jimmy!» sussurra beato il ragazzo vicino a me. Ma Jimmy, così fragile e introverso, è lontanissimo e perfetto. E forse non è proprio un eroe invincibile. Ma è bello vederlo così grande sullo schermo.
Fa meno freddo. Sick Again e Achilles Last Stand con il fumo colorato che esce dal boccascena. E poi un pezzo nuovo, tratto dall’album appena uscito, Hot Dog: un pezzo country & western, con un attacco sottile di Plant e poi via dentro una storia texana battuta e visionaria attraversata da Greyhound e altre evocazioni mitiche dell’America, un «rockabilly hump-up». Ma non basta. Oggi il r’n’r se ne va per altre strade (è ancora così giovane), può fare tranquillamente a meno del grande spettacolo. Forse i Led Zeppelin non hanno mai suonato bene come stasera, ma è stato un concerto tutto sotto il segno del passato, il miglior concerto di una vecchia band, con spontaneità ed entusiasmo, ma anche con tanto di anacronistica «magnificenza». Oggi la new wave fa cose migliori e loro rischiano di rimanere dei grandi sopravvissuti. A meno che… certamente, nella loro musica c’è abbastanza sicurezza e ottimismo per cambiare, ricominciare, soprattutto suonare. (22 agosto 1979)