La Banca Mondiale ha pubblicato nei giorni scorsi il suo rapporto periodico sulle prospettive dell’economia mondiale (World Bank, Global Economic Prospects, Washington, 11 gennaio 2022). Ricordiamo che i documenti della Banca, come quelli dell’Fmi, sono ormai da tempo abbastanza cambiati rispetto all’impostazione” che era propria di quelli pubblicati sino a qualche anno fa, ispirati allora al Washington Consensus.

Con questa premessa, si può affermare che le analisi di base contenute nel rapporto appaiono condivisibili e non lasciano molto spazio all’ottimismo. Esse si possono sintetizzare in due punti principali: 1) L’economia mondiale, dopo gli exploit del 2021, sta entrando in un periodo di marcato rallentamento e così, dopo una crescita complessiva del 5,5% nell’ultimo anno, si può stimare un aumento del Pil pari al 4,1% per il 2022 e al 3,2% nel 2023; 2) La riduzione coincide con una divaricazione importante nei tassi di crescita tra le economie avanzate e quelle dei paesi emergenti, di cui si teme un “atterraggio brutale” nel 2022.

Nelle prime, la riduzione nel processo di sviluppo permetterà comunque di riportare la produzione e gli investimenti al livello pre-pandemico entro al massimo il 2023, mentre le seconde alla fine del 2023 si troveranno ancora con un livello dell’economia inferiore del 4% a quella di prima della pandemia; la Banca stima che alla fine del 2023, in effetti, il 40% di essi avranno un reddito nazionale ancora inferiore a quello del 2019.
Il previsto rallentamento generale della crescita nel mondo è attribuito a cause molteplici, quali lo sviluppo delle varianti del Covid, l’aumento dei tassi di inflazione e del livello dei debiti pubblici e privati nei vari paesi, le diseguaglianze economiche. Si tratta di fattori ampiamente noti e sui quali non appare necessario dilungarsi.

Il tema più dibattuto riguarda comunque l’intensità e la durata delle crescita dell’inflazione, che la Banca ricorda essere oggi al livello più alto dal 2008 (negli Stati Uniti il suo valore per il 2021 è stato pari al 7,0%, come non si vedeva dal lontano 1982), ma per il momento non possono sorgere dubbi sulla sua consistenza a breve termine. Il Sole 24 Ore del 12 gennaio aveva in prima pagina tre titoli molto allarmanti in proposito: “Pasta, in arrivo rincari del 38%”, “Marchesini, per le imprese il costo energia in tre anni è volato da 8 a 37 miliardi”, “Powell (Fed), l’inflazione è una minaccia grave”. Al di là dell’enfasi sulla questione, che potrebbe far parte dell’azione di lobbying da parte della Confindustria verso il governo, il problema appare grave, ma va ricordato che di solito sono colpiti da alti livelli di inflazione in primo luogo i lavoratori e comunque i ceti più indifesi.

Marcate divergenze di situazioni si registrano in generale anche nei paesi più sviluppati, non solo in quelli deboli. Così, Les Echos del 12 gennaio segnala che i dividendi mondiali distribuiti agli azionisti dovrebbero raggiungere i 2010 miliardi di dollari nel 2022, con un incremento del 18% rispetto al 2021, anno nel quale essi erano già aumentati fortemente rispetto all’anno precedente.
Intanto in Europa molti governi, mentre cresce fortemente il numero dei poveri, stanno aumentando il livello del salario minimo per cercare di proteggere i lavoratori meno pagati dai colpi della congiuntura; ma molti mettono in rilievo come tale azione coprirà solo una parte di quelli che sono vulnerabili.

E veniamo ai paesi deboli. I rischi di alti livelli di inflazione e di tassi di interesse crescenti nei paesi ricchi comporteranno rilevanti danni ai paesi in via di sviluppo. Questi ultimi non hanno la possibilità di prendere liberamente a prestito denaro sul mercato per proteggere i loro popoli, ora anche con il rischio di una rilevante fuga di capitali, mancando poi anche di sistemi adeguati di welfare e di un accesso accettabile ai vaccini. La Banca Mondiale raccomanda a questo proposito alle nazioni ricche di ridurre il peso dei debiti dei paesi emergenti e di assicurare l’arrivo in essi di quantità sufficienti di vaccini; voeux pieux, belle parole queste ultime, come ha mostrato l’esperienza del recente passato. E comunque ci vorrebbe anche dell’altro.

L’ultima sezione dello studio esplora l’influenza della pandemia sulle diseguaglianze a livello globale, mostrando, tra l’altro, come essa abbia aumentato le stesse in molte sfere dell’attività umana, dalla citata disponibilità di vaccini, ai tassi di sviluppo economico, all’accesso all’educazione, alle perdite di lavoro e di reddito, con conseguenze poi più pesanti per i lavoratori a bassa qualificazione, per quelli operanti nell’economia informale (che in un paese come l’India raggiungono forse il 90% del totale) e per le donne.