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L’economia politica del renzismo

Renzinomics Meno attenzione per Parigi e le periferie europee, più legami con la City di Londra. Il sostegno dall’alto di un blocco d’interessi che va dalla rendita finanziaria e immobiliare alla Confindustria, fino alle piccole imprese con l’acqua alla gola. Il populismo rottamatorio. Cosa si intravvede all’orizzonte del nuovo governo

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 21 febbraio 2014

Per capire la politica economica del nuovo governo di Matteo Renzi si è tentati di partire dalla sua intervista al Foglio dell’8 giugno 2012: «Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore» (www.ilfoglio.it/soloqui/13721). L’economista della Chicago School Luigi Zingales è ora vicino agli ultrà liberisti di “Fermare il declino”, Pietro Ichino è senatore di Scelta Civica e Tony Blair consiglia i governi di Albania, Kazakistan, Colombia.
Il quadro, tuttavia, è molto più complicato. L’orizzonte economico del Renzismo ha quattro punti cardinali. Il primo è l’ancoraggio internazionale. Matteo Renzi è il primo leader politico italiano con un rapporto prioritario con la finanza internazionale, attraverso il finanziere di Algebris Davide Serra, suo stretto consigliere. La capitale della finanza che ci riguarda è la City di Londra, che si avvia a contare più di Berlino, dove Merkel già rimpiange Enrico Letta. Bruxelles resta un passaggio obbligato, ma possiamo aspettarci un Matteo Renzi meno integrato nella faticosa costruzione istituzionale dell’Unione, pronto a smontarne qualche pezzo e a muoversi con le mani più libere, come spiega nella pagina seguente l’articolo di Anna Maria Merlo. Nessuna attenzione – si direbbe – per Parigi e le periferie dell’Europa, dove Roma potrebbe diventare un importante contrappeso rispetto a Berlino. La regola numero uno della finanza è che il cartello lo fanno i creditori, tutti insieme contro chi è in debito, preso da solo.

Guai ai debitori che osassero coalizzarsi, e il governo Renzi – come quelli che l’hanno preceduto – riconosce che i poteri della finanza hanno la precedenza sugli interessi materiali del paese più indebitato d’Europa, il nostro.
Il secondo punto cardinale del renzismo è il sostegno interno – “dall’alto” – da parte del blocco d’interessi che lo appoggia. Rendita finanziaria e immobiliare, le grandi imprese protette dallo stato – dalle banche a Mediaset, dall’energia alle telecomunicazioni – Confindustria e le piccole imprese con l’acqua alla gola, scivolando nel ceto medio impoverito, che teme di perdere quel poco che ha, più di quanto immagini di poter ottenere in più da lavoro, conoscenza, investimenti. Resta da vedere come si collocheranno gli interessi che, soprattutto nel Mezzogiorno, sconfinano con l’economia criminale. Il renzismo eredita così buona parte del blocco d’interessi che erano stati garantiti dal berlusconismo, e ne raccoglie la bandiera unificante dell’ostilità alla tassazione dei patrimoni. Ma nel renzismo c’è qualcosa di più, il rinnovamento della seduzione imprenditoriale esposta alla Leopolda, da Eataly alla moda, un’ “economia dell’offerta” fatta in casa che promette protagonismo a giovani e nuove imprese, temi del primo Berlusconi poi sotterrati da decenni di scandali e manovre di potere.
Il terzo punto cardinale è il suo radicamento dal basso. Può questo blocco d’interessi rinnovare l’egemonia, trasformarsi in un blocco sociale che alimenti il consenso al renzismo? È questo il compito più difficile. Un italiano su sei è oggi senza lavoro, tra chi lavora uno su quattro è precario, l’industria ha perso un quarto della produzione rispetto a prima della crisi, la povertà dilaga. L’agenda economica di Renzi garantisce il dieci per cento più ricco del paese, che possiede quasi metà della ricchezza. Come si può convincere almeno un quarto di italiani impoveriti che ciò che fa bene ad Alain Elkann fa bene anche a loro? Qui non c’è nulla da inventare, è un gioco riuscito a Ronald Reagan 35 anni fa e che ha funzionato abbastanza bene in tutto l’occidente (e oltre), berlusconismo compreso. Si smontano le identità e gli interessi collettivi – comunità locali, reti di solidarietà, sindacati – e si spiega a tutti che siamo individui che dobbiamo cogliere le opportunità offerte dai mercati globali, siano queste le speculazioni sui derivati o l’emigrazione per fare pizze a Berlino. Lo stato e le sue tasse sono il nemico principale che abbiamo tutti in comune. Se le opportunità si rivelano illusioni – come succede in Italia da vent’anni – sarà soltanto colpa nostra. La politica non ha più la responsabilità di garantire sviluppo, diritti, uguaglianza.
Il quarto punto cardinale è il più efficace: il populismo. Finora c’è stata la “rottamazione” della vecchia politica, ora verranno nuove disinvolte operazioni per impaurire e convincere i perdenti che potrebbero perdere molto di più. Giovani precari a cui distribuire qualche briciola contro vecchi “garantiti” a cui togliere diritti. L’efficienza del privato contro la burocrazia pubblica che blocca il paese. E, naturalmente, gli italiani da tutelare contro gli immigrati. La politica e l’economia sono trasformate in caricature buone per la dichiarazione del giorno in tv. Gli argomenti possono rovesciarsi da un giorno all’altro, retorica e contenuti sono dissociati, accordi e alleanze sono guidate dall’opportunismo.
Con una bussola di questo tipo il renzismo non ha nulla in comune con la tradizione socialdemocratica e l’esperienza delle coalizioni di centro-sinistra. Margaret Thatcher pensava che il suo risultato politico più importante fosse proprio la nascita del New Labour di Blair, costretto a «trascinarsi nel mondo moderno», a sostenere «il mercato, le privatizzazioni, la riforma delle leggi sul lavoro e meno tasse su individui e imprese». Silvio Berlusconi – e il fantasma della Lady di ferro – potrebbero presto dire lo stesso di Matteo Renzi.

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