C’era una volta, prima dell’era della guerra e del dominio, un’unione sacra fra i viventi, un atteggiamento rispettoso nei confronti non solo degli altri umani ma della terra, del mondo vegetale, degli animali, dell’acqua. Vi si attingeva per vivere, ma non se ne faceva merce. Diversi popoli adottavano i simboli di Madre Terra e ripudiavano il bellicismo, simboleggiato nel culto romano del crudele dio Mitra.

Poi il rispetto è stato vinto dal disprezzo. Elementi naturali e creature sono diventati mere materie prime da spremere all’osso; senza chiedere scusa, senza dire «peccato». Le civiltà matriarcali antiche e quelle «primitive» che sopravvivono – alcuni gesti e riti hanno accompagnato la stessa civiltà contadina italiana fino a pochi decenni fa – sono state schiacciate dall’empio. La rete della vita è stata lacerata dalla distruzione del non umano a opera della comunità dell’homo sapiens, e dallo sfruttamento di popoli, classi sociali e caste all’interno di questa frantumata comunità. Come scrive Sonia Savioli (La vita sacra, edizioni Città del sole, Napoli, 2018, 15 euro), «la prima casta nella storia delle attività umane è stata quella dei guerrieri di professione» che ha via via condotto verso una «società di guerra diffusa, di competizione pervasiva e spinta oltre ogni limite» necessaria a «uno stupido, insostenibile e crudele consumismo dalle mille facce».

Eppure questa economia mortifera «deve finire, prima che finisca la Vita, prima che finiscano foreste, fiumi, oceani, terre fertili». Per questo, il libro è uno stimolante excursus fra il presente e le civiltà della Vita sacra, in altre geografie e in altre epoche storiche.

In copertina, impronte di mani color sangue: il liquido che affratella oppure che scorre dolorosamente invano. Pitture rupestri nelle grotte del Paleolitico, realizzate dai «primitivi». Quelle mani impresse con gli ossidi e la calce, ora chissà perché evocano violenza e paiono implorare. La rottura del sacro rispetto ha reso di ordinaria amministrazione i massacri: guerre di bombe sulle teste dei popoli, mattanze di animali, annientamenti dei viventi vegetali (il popolo delle foreste e delle mangrovie), saccheggio dei continenti, sterminio di pesci e mari, sfruttamento dei lavoratori globalizzati, distruzione delle culture. E naturalmente oppressione delle donne, che della Vita sacra erano le custodi, senza prevaricazioni e disuguaglianze.

Il profitto economico che fa scempio di esseri e ricchezze, il «potere di morte» dei guerrieri dominatori, nella storia ha lacerato la rete della vita in molti modi. Per secoli, tanti hanno provato a resistere. Le rivolte delle civiltà contadine, anche in Europa, sono semisconosciute. Chi sa degli Hussiti di Boemia che «chiedevano uguaglianza e comunione dei beni e sconfissero cinque crociate ma, non essendo guerrieri per mestiere, alla fine persero»? E dei Bogomili in Bulgaria? E dei càtari sterminati fra la Francia e l’Italia? Non va mai dimenticata l’infernale «mietitura dell’Inquisizione» che bruciò vive folle di streghe erboriste e di eretici comunitari, proprio mentre le foreste di mezza Europa venivano anch’esse falciate per diventare pascoli.

Tuttavia, la razza umana può reagire: «finché c’è vita c’è speranza», «gli imperi finiscono», titolano alcuni paragrafi. Non sarà facile – secoli di persecuzione e sfruttamento hanno ridotto mezzo mondo a «suburra», folle immense senza più radici né cultura -, ma l’autrice richiama le lotte in tutto il mondo per la sopravvivenza della «razza umana capace di produrre cibo senza distruggere le fonti della vita».

E anche in questo Occidente degli avvelenati privilegi, che pare decerebrato, compulsivo, cieco alla vita, ecco segni salvifici, «come ghiande seminate nel deserto»: gli ecovillaggi, le città in transizione che puntano all’autosufficienza urbana, le resistenze comunitarie alle varie latitudini.

Devono unirsi. Per «riparare la rete» della Vita sacra.