Seppure osservata dal ridotto dei nostri obbligati spazi interni, o inseguita sui balconi, o negli scampoli di verde consentiti al nostro micropasseggiare, l’euforia floreale della primavera, del «fuori», si impone, avvolgendoci nostro malgrado nel suo imperterrito, ciclico rinnovarsi, a farci sentir parte di un universo che normalmente, dandolo per scontato, ignoriamo. La mancanza di natura è un problema che ulteriormente risuona in questi tempi di segregazione. E non soltanto per chi si ritrova a vivere costretto in aree urbane incardinate attorno a un abitare fatto di uffici, banche, traffico, patrimoni immobiliari.

Di questo irriducibile bisogno di natura il giardino in vario modo si è fatto via via interprete e mediatore. Come luogo privilegiato dell’esperienza polisensoriale, immergendoci nel flusso della metamorfosi continua, rende da presso palese il nostro partecipare delle combinazioni del vivente. Ma anche, e contemporaneamente in quanto «natura in artificio», è la risultante, progettuale e operativa, del nostro desiderare come singoli e come collettività: sempre i giardini hanno indicato aspirazioni comuni, hanno preteso di raccontare il meglio delle società che essi illustrano.

Ora, il giardino si fa anche spazio privilegiato per leggere (e sperimentare) una riconsiderazione critica dell’altrimenti inossidabile assunto antropocentrico che vuole noi umani misura di tutto. Si fa occasione per integrare il vivente in un’attenzione a tutto campo, interdisciplinare anche negli assunti delle cosiddette environmental humanities. Microcosmo di consapevolezza che ci proietta nella foresta di relazioni che ci include, il giardino ci induce a ripensare l’individualità all’interno della colonia ecologica di connessioni e conversazioni con altre specie.

UNA SORTA DI CAMBIO di paradigma riguarda oramai lo statuto del verde – in ogni caso fatto del coesistere di diversissime esperienze più o meno pop e raffinate, intime o collettive, estetiche o socialmente, criticamente connotate. Un rinnovato interesse che, fin nel senso comune, paradossalmente arriva a intendere il giardino come metafora di un possibile, diverso modo di porsi di fronte all’evidenza dei limiti del modello di sviluppo basato sullo sfruttamento infinito delle risorse.
È ormai acquisita l’immagine del «giardino planetario» prospettata già molti anni fa dal paesaggista Gilles Clément, a dirci che il nostro pianeta è un universo chiuso nei confini della biosfera, dove ogni elemento è connesso in una logica di condivisione e collaborazione. Un giardino di cui tutti siamo chiamati a prenderci cura, operando come accorti giardinieri planetari. Con attenzione, responsabilità, rispetto.

C’è poi una nuova consapevolezza – esito anche degli sforzi di una divulgazione avvertita – sulle modalità con le quali, nella sua irriducibile alterità, il mondo vegetale, in maniera evoluzionistica, ci suggerisce una serie di soluzioni diverse rispetto a quelle percorse dal mondo animale (è il caso del neurobiologo vegetale Stefano Mancuso), quando non addirittura nuovi paradigmi per modelli di società (con il filosofo Emanuele Coccia).

NEL SUO FARSI CUSTODE del giardino e del pianeta, capace di ascoltare la natura, di assecondarla, seppure creativamente imparando a lasciarsi sorprendere e insieme a integrare nel progetto l’invenzione dell’imprevisto, il giardiniere prefigura con il suo agire un’etica della cura dove, come in un climax che si ripropone (il giardino cura il giardiniere che cura le piante), si individua la dialettica di una solidarietà istintiva che lega tra loro tutte le forme di vita (Brunon e Martella).

L’ATTUALITÀ in giardino di un’ecologia «planetaria» va di pari passo con l’affermarsi di un’estetica che si lega ai temi della biodiversità, della bassa manutenzione, della scarsità, del secco. Un’estetica che oltre lo snodo del giardino «naturale» vira in direzione di un’etica intesa a promuovere, in senso lato, biodiversità e, assieme all’uso sostenibile delle risorse, a privilegiare pratiche di restituzione.

OLTRE CHE come fatto estetico o botanico, nel giardino si intrecciano dimensione interiore e sociale, logiche proprie degli spazi individuali, intimi e attivismo. Investigato per il suo potere di rigenerazione mentale, suscitatore com’è di esperienze intense, relazioni estatiche, emozioni, sentimenti, stati d’animo, in un concerto di affetti che per il suo tramite, instauriamo anche con noi stessi, il giardino è al tempo stesso occasione di pratiche collettive che esigono e inducono una partecipazione attiva, continuativa e risoluta, con relativa assunzione di responsabilità. Che si traducono in esperienze di produzione di cibo su base locale, dinamiche di distribuzione e consumo, processi identitari, associativi, di integrazione sociale e culturale, educazione ecologica.

FINCHÉ, dall’individuo alla collettività, il valore trasformativo delle pratiche di giardinaggio, che si moltiplica specialmente su scala urbana, può farsi strategia ambientale (Di Paola).
Mentre, al di là di funzioni e valenze convenzionali degli spazi di verde pubblico urbano cui siamo abituati a pensare, attorno all’orto e al giardino si moltiplicano progetti collettivi di riappropriazione, trasformazione, rigenerazione dello spazio pubblico, iniziative di cittadinanza attiva, reinvenzione e riutilizzo di luoghi abbandonati, residuali. Giardini temporanei, orti condivisi. Spesso occasioni di rinegoziazione del bene comune e di messa a verifica di soggettività, processi identitari, di sperimentazione di forme di dialogo e coesistenza (Lambertini).

NEL SUO MUTUO innescarsi di naturalezza e artificio, oltre a confrontarci produttivamente con il tema dell’impermanenza, il giardino, soprattutto, continuamente progetta di abitare il durante.
In maniera tanto più urgente oggi, di fronte alle conseguenze di un indiscriminato sfruttamento delle risorse, con l’evidenza del nesso di causalità che stringe povertà e sofferenze del pianeta, il giardino come principio di responsabilità ci aiuta a rimettere in discussione non soltanto un sistema di produzione e «sviluppo», ma un sistema di conoscenza fondato su un paradigma che spiega ogni fenomeno, inclusi vita e pensiero, a partire da processi chimici e meccanici. Verso, invece, una visione circolare, in una prospettiva a lungo termine. E, nella prospettiva unitaria del giardino, che con la sua capacità di intermediazione e incontro è versato alla diversità, non semplicemente vita, ma «buona vita», come diritto universale (Venturi Ferriolo).