Nel 2011, «il caso DSK (Dominique Strauss-Kahn)» annunciava «la fine dell’eccezione sessuale» (per riprendere il titolo dell’intervento che pubblicai su Libération quando scoppiò il caso). L’arresto a New York del presunto candidato alla presidenza della Repubblica apriva, in effetti, la via all’eterno ritorno del «caso Polanski» e accendeva la miccia di quello che sarebbe poi diventato il #MeToo.
Di colpo, diventava difficile sventolare lo spauracchio dell’America puritana per giustificare un’eccezione francese al diritto comune, a meno di considerare lo stupro una seduzione «alla francese». Da quel momento, l’abitudine di «alzare le sottane della serva» (troussage de domestique) non ha più lasciato indifferenti, e le rivendicazioni nostalgiche della «libertà di importunare» risuonano ormai come l’eco muto di un mondo antico.
Perché il sesso dovrebbe sfuggire all’esigenza di libertà e di uguaglianza? Politici e artisti non possono più sottrarsi alla logica della democrazia sessuale, e la Francia non può certo essere un’eccezione.

OGGI, NEL CAMPO della democrazia razziale, possiamo avanzare l’ipotesi che le mobilitazioni internazionali ci stiano mettendo di fronte a qualcosa di simile. La presenza delle attrici Adèle Haenel e Aïssa Maïga al fianco di Assa Traoré, per suo fratello Adama e per tutte le vittime, il 2 giugno scorso, non può non far pensare all’ultima cerimonia di premiazione dei Césars; così come la lettera di Virginie Despentes «ai miei amici bianchi che non vedono il problema» richiama il suo intervento esplosivo di allora: «Ormai, ci alziamo e ce ne andiamo!». Insomma, il parallelismo è evidente: e se stessimo vivendo, in Francia come altrove, la fine dell’eccezione razziale?
Anzitutto, stiamo prendendo coscienza del fatto che è assurdo rinviare il razzismo oltreoceano invocando la storia della schiavitù, come se la Francia non fosse, anch’essa, ereditiera del commercio triangolare. Chi può credere che, quasi controcorrente rispetto all’America, la Repubblica coloniale sia potuta restare «cieca alla razza», quando invece ha legiferato sui «meticci» e assegnato uno statuto giuridico diverso ai «francesi musulmani di Algeria»? La questione razziale non appartiene in proprio a tale o a tal altra cultura; non ci è estranea. «Non riesco a respirare»: queste ultime parole avrebbero potuto essere anche quelle di Adama Traoré. Le manifestazioni che si moltiplicano non parlano solo degli Stati Uniti, ma dei George Floyd di molti paesi. Non si tratta di importare una questione straniera: in realtà, l’attualità statunitense non è altro che un catalizzatore. Questo specchio transatlantico ci rimanda la nostra stessa immagine.
Inoltre, i bianchi sono presenti in gran numero nelle mobilitazioni al fianco delle minoranze. In altri termini, potrebbe darsi che la frattura razziale creatasi nell’universo antirazzista, diviso tra associazioni che si richiamano all’universalismo, ma che sono in modo maggioritario bianche, e altre accusate di comunitarismo, proprio perché non sarebbero abbastanza bianche, si stia richiudendo. Tutto ciò è il risultato di una mutazione: nel momento in cui ci accorgiamo di questa presenza mista, ci troviamo a nominare «i bianchi» in quanto tali, e a pensare a loro come «alleati» delle «persone interessate».

IL RAZZISMO NON APPARE più soltanto come un problema delle persone razzializzate. Con la deriva repressiva dello Stato, le violenze della polizia non sono più confinate alle sole banlieues: dal 2016, si sono diffuse anche contro i movimenti sociali. La convergenza delle lotte passa dunque dalla convergenza dei colpi. Ma c’è di più: come ha scritto l’artista Banksy, «il sistema» è un «sistema bianco»: dunque, «è un problema bianco».
La sommossa non è più vista come l’unica strada della rivolta. In un primo tempo, negli Stati Uniti, le proteste hanno preso una forma violenta, riaccendendo il ricordo dei moti razziali di Los Angeles del 1992, o degli anni ’60 in tutto il paese. Donald Trump ha peraltro cercato di gettare olio sul fuoco riprendendo la minaccia del capo della polizia di Miami nel 1967: «se cominciano a saccheggiare, cominciamo a sparare!». Tuttavia, in un secondo tempo, la mobilitazione diventa manifestazione.
È l’effetto della ripoliticizzazione che porta il movimento BlackLivesMatter fin dalla sua nascita nel 2013. Un gesto, il ginocchio a terra del calciatore Colin Kaepernick, è stato addirittura ripreso al Congresso da alcuni democratici per fare della protesta un progetto di riforma della polizia. La città di Minneapolis, dove George Floyd è stato ucciso, sembra essere sensibile agli appelli per «smantellare» la polizia e tagliarle i viveri («defund»). Stiamo chiaramente parlando di politica.

INSOMMA, LA FINE dell’eccezione razziale significa che la razzializzazione della società è riconosciuta come una questione propriamente democratica. Senz’altro è ancora difficile accettarlo in Francia, dove ci si ostina a credere che il solo parlarne sia una forma di razzismo. Ma così facendo non si comprende che i razzisti credono all’esistenza delle razze al plurale (bianca, nera, ebrea, ecc.), mentre gli antirazzisti nominano la razza al singolare, per denunciare il meccanismo sociale di assegnazione a una differenza gerarchizzata (la razzializzazione). Nel 2018, i deputati hanno votato all’unanimità la proposta di eliminazione della parola «razza» dalla Costituzione, dove appare in realtà per combattere il razzismo («senza distinzione di razza»). È come se, in Francia, si combattesse contro la parola per non lottare contro la cosa.

IL PROBLEMA non è tanto sapere quanti poliziotti sono effettivamente razzisti; è un fatto constatato anche dal Difensore dei diritti che i giovani neri o arabi sono controllati dalla polizia venti volte di più dei bianchi – con tutti i rischi di abuso che conosciamo. Dunque, per comprendere il razzismo, come il sessismo, bisogna partire dal punto di vista di quelle e quelli che lo subiscono. Quando la cantante Camélia Jordana ha il coraggio di dire la paura «degli uomini e delle donne che vanno a lavorare tutte le mattine in banlieue e che si fanno massacrare per nessuna altra ragione se non il colore della loro pelle», il ministro dell’Interno la castiga: «la libertà del dibattito pubblico non permette di dire qualsiasi cosa».
Ci si rifiuta ancora di nominare il razzismo sistematico, una logica sociale che non si riduce alle intenzioni o all’ideologia razziste, ma si misura con i suoi effetti. Il ministro della Giustizia di Donald Trump, William P. Barr, pensa che non «ci sia un razzismo sistematico nel regime poliziesco». Lui stesso però finirà per concedere: «dobbiamo riconoscere che le nostre istituzioni sono state esplicitamente razziste durante la maggior parte della nostra storia»… Diciamo pure allora che lo sono ancora implicitamente.

CERTO, NON ABBIAMO ancora eliminato il razzismo, e lo stesso vale per il sessismo. La fine dell’eccezione razziale e sessuale significa però che entrambi hanno smesso di essere dati per scontati e accettati implicitamente: le questioni politiche sono a nudo. In Francia, stiamo assistendo a una scelta di società. Possiamo continuare a rivendicare l’eccezione razziale, o sessuale, in nome di una cultura repubblicana che ci definisce a partire dall’esclusione di una parte di noi? Oppure è arrivato il momento di dichiarare che l’universalismo non ammette eccezioni? La Repubblica è una singolarità nazionale, oppure deve anch’essa iscriversi in una logica democratica comune? Tale è la questione della democrazia, razziale o sessuale: la cosa e non la parola.

* Il testo è uscito il 10 giugno su Libération, https://www.liberation.fr/debats/2020/06/10/la-fin-de-l-exception-raciale-en-france_1790802

(Traduzione dal francese di Massimo Prearo)